Non è campo in cui giovi fare guerre partigiane: sono in gioco i valori per ciascuno di noi alla base della persona e della vita e dunque è indispensabile una serenità di approccio che mal si concilia con dichiarazioni sensazionalistiche, volte unicamente a suscitare clamore o a raccogliere consensi “di pancia”.
Allo stato, il diritto all’autodeterminazione terapeutica trova sicuro fondamento costituzionale nell’art. 2, che promuove e garantisce i diritti fondamentali della persona, della sua
dignità e
identità; nell’art. 13, che nell’affermare la libertà personale postula il “diritto della persona di disporre del proprio corpo” (Corte Costituzionale, sent. n. 471 del 1990) e nell’art. 32 che stabilisce che i trattamenti sanitari siano obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, la quale potrà stabilirne l’obbligatorietà soltanto ove il trattamento sia necessario ad impedire che la salute del singolo arrechi danno a quella di altri.
Questi principi, cui fanno eco fonti sovranazionali come la
Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina e nella
Carta Fondamentale dell’
Unione Europea di Nizza, hanno trovata concreta applicazioni nella Legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale e in tutta la giurisprudenza, ormai pacifica, che riconosce nel consenso informato il principio alla base del rapporto medico-paziente, legittimante ogni trattamento sanitario, altrimenti illecito.
Ed è facendo applicazione di tali concetti che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza 27145/2008) hanno specificato che il ruolo del Giudice è quello di vigilare che l’interruzione dell’alimentazione e idratazione artificiali avvenga nel pieno rispetto di due irrinunciabili principi: l’accertamento, sulla base di un rigoroso apprezzamento clinico, che lo stato vegetativo permanente sia irreversibile (secondo gli standard scientifici internazionali non ci sia la “benchè minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di un ritorno ad una percezione del mondo esterno”); la riconducubilità della richiesta di interruzione, “in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti”, alla reale volontà del paziente, in quanto corrispondente “al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.
Tutto ciò perché alla base dell’ordinamento costituzionale italiano sta un concetto di persona quale Valore-in-sé. Questo si scontra, tuttavia, con una diversa concezione, fondamento della cultura cattolica, che vede nella persona uno strumento (un mezzo) del Potere (della Misericordia) divina, dunque, in sostanza, non un Bene-in-sé, ma un Bene-in-quanto-promanazione-divina.
Il risultato di questo diverso modo di concepire la persona, di cui solo “Dio” può disporre, è la negazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica e, in conseguenza, la necessità di spostare il dibattito dal
come garantire il diritto all’autodeterminazione terapeutica (attraverso il testamento biologico o in altro modo) al
se alcune terapie (nella drammatica vicenda della donna che da più di sedici anni è in Stato Vegetativo Permanente, l’alimentazione e l’idratazione artificiale) costituiscano o no trattamento terapeutico.
Chi nega alla persona il diritto di scegliere se sottoporsi oppure no ad una terapia medica, in realtà nega il diritto all’autodeterminazione e lascia uno spazio di azione solo in presenza di un cosiddetto accanimento terapeutico (concetto tutto da determinare), unico caso in cui si riconosce pacificamente una possibilità di interruzione.
La discussione, dunque, viene spostata sull’accertamento del se alcune terapie costituiscano o meno
trattamento terapeutico, perché ciò rileva al fine di stabilire se l’applicazione delle stesse costituisca o meno
accanimento terapeutico.
Tanto ciò è vero che le problematiche sollevate dalla legittimità del testamento biologico (il problema della capacità ad esprimere il consenso all’interruzione del trattamento e il problema dell’attualità della scelta rispetto al momento in cui l’interruzione verrà praticata) sono state evidentemente in secondo piano.
Si tratta di questioni che una parte (Politica in senso alto ed ampio) non si vuole neppure porre, poiché postulano un concetto filosofico di “persona capace di scelte sulla propria vita” che è un concetto che si vuole negare.
Ed infatti, polemiche identiche scatenò la scelta di interrompere la respirazione artificiale fatta da Piergiorgio Welby nel pieno della sua capacità di intendere e volere.
Ma qualunque sia l’Idea di persona che ciascuno di noi ha, non si può negare che allo stato il nostro ordinamento costituzionale sancisce il diritto di scegliere liberamente delle vicende del proprio corpo, quando queste scelte non arrechino danni a terzi.
Il che non significa avallare l’esistenza di un diritto assoluto di morire ( e quindi non significa riconoscere l’eutanasia), ma più semplicemente riconoscere un diritto a che la vita segua il suo corso “naturale”, senza interventi “artificiali” esterni che il malato ritenga per sé intollerabili e non proporzionati.
Ammoniva Beccaria che “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e divenga cosa” e la nostra Costituzione ha ritenuto che compito di uno Stato laico fosse quello di garantire che ciascun uomo sia sempre, in ogni momento, persona.
di doriana vencia