Il santo non rispondeva ma mandava segnali attraverso le nuvole e i venti e i contadini avevano imparato a decifrarli senza sbagliare. Ne erano certi e ne andavano fieri al punto che quando la situazione sfuggiva loro di mano era sempre colpa di Barnaba che aveva cambiato programma senza avvertirli. I capricci di Barnaba, le ire di Barnaba, la vendetta di Barnaba.
Quando un santo si crede un Dio è capace di vendicarsi per una preghiera mancata. Vatti a fidare dei santi.
Ricordava bene l’anno in cui Barnaba gli aveva voltato le spalle. Ricordava le colline indurite sotto la coltre di ghiaccio. I filari scheletrici arsi dal gelo e il terreno livido di acini sfatti. E ricordava suo nonno- il pugno stretto e il cappello di paglia anche in inverno- che inveiva contro il Santo chiamandolo Dio. Dio.
Ma quanta soggezione può nascere dalla disperazione di un uomo? E quanta rabbia occorre per uccidere un santo?
Lo afferrava stretto per gli arti inferiori, la testa all’ingiù, e gli sferzava con l’altra mano un colpo secco alla nuca, poi impugnava il collo e lo stringeva con rabbia più che con forza spremendo le vene come un grappolo d’uva. Una smorfia scavava il suo volto sudato ma non si capiva se di piacere o dolore. Finché non si trasformava in un ghigno di sbieco, non privo di soddisfazione, seguito dall’eco di un rantolo e dall’abbaiare dei cani. Era quando il vino, finalmente, zampillava più rosso che mai, generoso come la vendemmia che non sarebbe stata.
Avrebbe realizzato più tardi il perché in ogni cascina si allevava un coniglio che chiamavano Barnaba. C’era un Barnaba in ogni conigliera e anche quando i conigli non c’erano, c’era Barnaba, solo, che aspettava di sapere se vivere o morire. Dipende da lui – gli diceva suo nonno scrutando il cielo mentre girava lento su stesso per abbracciare con lo sguardo tutto l’arco collinare. Disegnava con il dito i bordi delle nuvole e scongiurava venti che pure non c’erano. Dovremmo farcela, quest’anno è quello giusto.
Serpeggiava, in questi ossuti coltivatori di vite con i calli alle mani, la memoria di una fatica buttata alle ortiche, sbeffeggiata dalle bizze di un santo che non meritava sacrifici preventivi. Per ingraziarsi Barnaba era più che sufficiente una festa in cortile, mezzo bicchiere di vino e una giornata di riposo forzato, che era il più grande sacrificio gli si potesse concedere.
E’ cominciata così la tradizione della festa di San Barnaba, che è diventata festa grande, piena di rumori e colori che accecano gli occhi. Ma i sacrifici no. I conti si aggiustano dopo –diceva sempre il nonno-. Prima vediamo se si comporta a dovere. E che festa, sia.
Così a giugno anche la natura si faceva da parte per lasciar girare la giostra, che era luccicante e magnifica, coi suoi cavalli imbizzarriti per finta, la sirena intermittente dei pompieri che lampeggia e suona come se fosse vera, la carrozza principesca dai colori confetto e bambini e bambine in stato di grazia, le guance rosse e gli occhi umidi di felicità improvvisa.
I maschi e le femmine, troppo bardati e troppo diversi nelle loro divise da festa. Piccoli uomini gli uni, teneri e buffi con quel papillon rosso rubino che si storce a ogni corsa, più disinvolte le altre, nonostante pizzi e volant e capelli a chignon.
Arrivano accompagnati da madri inquiete e padri eccitati, a volte dai nonni, più rapiti di loro di fronte alla giostra, e scendono fin lì con la corriera di linea che passa puntuale due volte al giorno, la stessa che carica gli operai che fanno i turni alla fabbrica di cioccolato, sorta qualche anno prima tra le colline e il capoluogo. In realtà molte donne, giovani ragazze che nella fabbrica hanno trovato sollievo e riscatto. Sono le nuove famiglie che hanno scelto di restare in collina, non ancora ricche ma nemmeno più povere come una volta, quando non c’era un bel niente da festeggiare, nemmeno un santo a cui votarsi insieme alle viti che non erano molte e se si ammalavano loro era finita per tutti. Ora invece si può andare insieme alla festa e per Barnaba non ci sono solo scongiuri e preghiere ma lustrini, buon cibo e vino d’annata.
Lui li osservava, i bambini, e tra sé sghignazzava nel sentirli supplicare un altro giro di giostra, e poi un altro e un altro ancora. Sulla giostra lui non ci voleva salire perché non è cosa da grandi, la giostra, e lui grande lo era, perché lavorava nei campi come un adulto e aveva tutto il diritto di non sentirsi parte dei suoi coetanei. Senza contare che quei musi novelli tutti appiccicosi di zucchero filato, gli facevano persin tenerezza.
Non gli è mai piaciuto lo zucchero filato. Non ha mai voluto nemmeno assaggiarlo. Gli faceva una brutta impressione quella nuvola bianca che di sincero sembrava avere ben poco. Da grande l’avrebbe paragonata a un batuffolo di cotone, ma allora non lo aveva mai visto, il cotone. Però le bocche lucide di zucchero sciolto lo divertivano molto, e le osservava incantato come se fosse al circo, o al cinema, dove non c’era mai stato, poi si leccava le labbra senza rendersi conto, come a voler pulire le loro con una passata di lingua.
Se la inumidiva con l’acqua, la lingua, e cercava intorno a sé qualcosa che non c’era. Dov’è il signore col berretto verde scuro e la canotta rossa a pallini neri? Dov’è. L’anno scorso era lì, a due passi dalla giostra, lo ricordava benissimo. La giostra che girava e lui che spariva e riappariva dietro il camion dei pompieri.
Deglutisce una due tre volte poi cerca l’equilibrio sulle punte dei piedi. Se fosse solo un po’ più alto sarebbe tutto più facile. Prova a guardare due case più in là ma oltre la piazza la festa è finita. Niente. Il signore non c’è. Beve un po’ d’acqua e dice pazienza, poi si asciuga la bocca col dorso della mano e dice pazienza ancora una volta.
Sta lì, seduto con le gambe a penzoloni sul muretto che fa da argine a quello che tutti chiamano il fiume - un rigagnolo in secca che divide la valle dai borghi sparpagliati sui colli- e si convince di non essere sceso al paese inutilmente.
Gli piaceva guardare la festa da fuori, senza prendervi parte, e quella gente acconciata per l’occasione la trovava ridicola. Eppure non riusciva nemmeno a sorridere. Li conosceva uno a uno e avrebbe potuto chiamarli per nome, ma combinati così sembravano finti e non s’azzardava. Una specie di imbarazzo lo tratteneva, o forse era solo pudore o rispetto o pietà, ecco, forse era proprio pietà, un sentimento familiare ma difficile a dirsi, che spesso lo attraversava ma non aveva un nome. Salutare gli sembrava irriverente, come sorprendere un ladro di uva in abito talare con il grappolo in mano.
Lascialo andare, per un po’ di uva fai finta di niente - gli diceva suo nonno in mezzo alle vigne- voltati dall’altra e raccogli la tua.
Non è bene rivelare alle maschere di aver capito chi sono, magari non si ricordano di averla indossata, la maschera. Lasciali in pace. Non vedi come sono felici? Voltati dall’altra e guarda lontano.
Ecco, questo proprio non gli riusciva. Era catturato da quelle figure che facevano ciao ai bambini, mandavano baci, succhiavano liquirizia come se avessero fame, giocavano a freccette e sparavano al tiro a segno: al tiro a segno, mica ai volatili per rimediare qualcosa da metter sotto i denti.
Sparano per gioco, le maschere felici. Ma tu voltati dall’altra e non dire niente. Oppure guardale, se non resisti, ma taci.
Clementino, cosa fai lì seduto tutto solo? Sei sempre troppo serio tu, non hai visto che sono arrivate le angurie?
Una maschera gli stava parlando e questa sì, era una rivelazione.
Le angurie. Era sceso fin lì apposta per loro.
Guarda là.
Ma certo! Il signore dal berretto verde scuro! Aveva parcheggiato il suo carretto di legno dietro alla gabbia dei conigli e Clementino tutte le volte che vedeva un coniglio chiudeva gli occhi e voleva sparire.
Le angurie! E’ spaesato, anche felice, ma non se ne accorge. E non sa che fare.
Grazie Bastiano. Con un filo di voce ringrazia il ragazzo a cui ha tolto la maschera. Il figlio del mezzadro dei loro vicini, un giovane corpulento che aiuta i contadini nella vendemmia e che non si è mai perso una festa comandata.
Dio quanto pesa. Ha scelto la più grande e la più verde di tutte, ché l’anguria è il contrario dell’uva: l’anguria più è verde più è buona e matura e se è così verde di fuori chissà come sarà rossa di dentro. Chissà com’è dolce. Più rossa e più dolce di quella tagliata a metà che il signore dal berretto verde ti fa assaggiare a fettine minuscole per invogliarti a comprarla.
Poca poca, anche meno, che meno ne assaggi e più ti viene la voglia.
L’avrebbe tagliata a fette non troppo sottili, la sua, senza separarle dalla scorza verde scuro. Tante mezze lune dal cuore tenero e dolce, da avvicinare alla bocca come un’armonica, vicino vicino, e non importa se le punte si infilano fin dentro le orecchie, meglio ancora. L’avrebbe morsa e succhiata a partire dal centro e poi via, verso destra e verso sinistra, proprio come suonasse l’armonica, da un lato all’altro, avanti e indietro, indietro e avanti, fin che ce n’è, per arrendersi solo un millimetro prima di rosicchiare la scorza.
A immaginarlo adesso, Clementino, è come un puttino accucciato dentro il primo spicchio di luna crescente, l’orecchio appoggiato e le ginocchia rannicchiate tra le braccia gracili che le tengono strette.
La stringeva forte, la sua anguria, mentre saliva.
Dio quanto pesa. Due tre quattro passi e doveva fermarsi a prendere fiato, lei sempre vicino, assicurata tra le caviglie e la pianta dei piedi, divaricati quanto basta a comprenderla tutta, poi di nuovo, la sollevava con la tigna di chi si pregusta la ricompensa e ricominciava a salire. Gli facevano male le reni, come a suo nonno quando si china a raccogliere le casse d’uva o di nocciole. Ma doveva resistere ancora un po’ di chilometri. E’ vero che casa è lì dietro, ma lì dietro è ancora lontano.
Dopo averla posata ancora una volta, con sempre uguale delicatezza, si siede vicino e pensa ai soldi raggranellati in un anno intero, pensa alla giostra su cui non era salito e pensa persino allo zucchero filato che non aveva mai assaggiato e forse buono lo era, sennò i bambini non avrebbero avuto quella faccia felice. E si domanda se ne valeva la pena. Butta ancora un occhio all’anguria e pensa che sì, ne vale proprio la pena. Allora l’abbraccia e abbracciandola gli balena un’idea. La ruota. La faccio rotolare su fino a casa. Un po’ in ginocchio un po’ chinato sarà più facile. Al solo pensiero si sente leggero come un uccello, la stanchezza sparisce e i muscoli tutti sono più forti. Basta appoggiare i palmi delle mani e spingere leggermente, abbandonarla a se stessa per una frazione di secondo e poi riacchiapparla per una spinta successiva. E’ persino divertente. Guarda come rotola, di spinta in spinta rotola sempre più su, sempre più forte e sembra quasi arrampicarsi da sola scansando i filari. Che grande scoperta, la ruota, averci solo pensato prima. Ora le spinte si fanno più forti. Più la spinta è sostenuta più sarà veloce il rotolamento e più sarà lungo il tratto percorso. L’ha capito bene l’arcano. Clementino è felice. Ormai lì dietro è vicino, basta un’ultima spinta ed è fatta.
Clementino, perché non me l’hai detto, te la caricavo io sulla corriera.
Clementino si volta e dice grazie Bastiano, poi si alza in piedi e fa ciao con la mano. Una frazione di secondo.
Clementino!
Si volta di nuovo, dalla parte opposta, e guarda di nuovo l’anguria, la sua anguria che rotola e rotola e rotola giù.
Nonno Clemente, hai gli occhi lucidi, cosa guardi là sotto? Ci sono solo alberi, non è ancora tempo di raccogliere le nocciole. E poi domani è San Barnaba, non si lavora.
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