I nostri si sono imposti di farlo, con quest’ultimo lavoro –Third – (il terzo appunto) che potrebbe segnare una nuova fase della loro produzione.
Il disco, diciamolo, non rinnega niente del passato, ma guarda al futuro.
Le
atmosfere tipiche del loro sound (livide, stranianti) non vengono totalmente messe da parte, ma, a quello che era lo schema/
tempo tipico del Trip-Hop, si sostituisce una dimensione più spaziale che
temporale, dilatata e compressa allo stesso tempo, con influenze Kraut-rock e Dark-
Industrial (la voce della Gibbons illumina, ma il diverso apporto delle chitarre e i contrasti sonori costanti creano scenari più tormentati).
La musica guadagna in complessità e si direbbe in struttura (se non fosse sostanzialmente destrutturata), ma l’ambizione che spinge la ricerca sonora verso la creazione di un opera della contemporaneità, estromette naturalmente l’aspetto più melodico.
All’ascolto il disco risulta quindi più gradevole alla mente che all’
orecchio, secondo il più classico stereotipo dell’avanguardia musicale, ma sempre interessante nel suo registro sonoro.
E cosi il pezzo che apre l’album, Silence, offre soluzioni ritmiche poco
morbide e tutte cerebrali; Hunter crea un atmosfera ipnotica segnata però da intermezzi spiazzanti; Deep Water è una ninna-nanna per la voce suadente della Gibbons, mentre Plastic, se da una parte si muove su sentieri già tracciati, nel seguito viene continuamente ‘disturbata’ da dosi massicce di
elettronica, che si palesano sontuosamente in Machine Gun, vera scarica elettrica in stile Industrial (uno dei brani più riusciti dell’intero album).
Quest’ultimo pezzo e Threads, che chiude degnamente il disco, racchiudono forse tutto lo spirito di Third, opera che i Portishead hanno voluto spigolosa, difficile, misteriosa, aperta, costantemente sospesa nella ricerca, come solo le cose innovative sanno essere.
di Dario Ameruso
Machine Gun (video) Threads (video)