Sua ultima pubblicazione in Italia, dopo i tomi di “Controstoria della Filosofia” e i suoi lavori sulla sessualità e sul corpo in forte polemica con la teologia e il cristianesimo, un libro più specificatamente politico: “La politica del Ribelle - Trattato di resistenza e insubordinazione” (alla mente tornano Jünger, Stirner), continuazione ideale de “La scultura di sé”, opera più vicina alla dimensione morale ed estetica della filosofia.
I numi tutelari, è inutile nasconderselo, sono quelli che accompagnano costantemente il cammino di Onfray, sempre molto vicino al modo del 'fare' filosofico, a un originale tratteggio in chiave
estetica di figure filosofiche. Così troviamo insieme: Nietzsche, Bataille, Epicuro, Stirner, e in questo caso Proudhon, Deleuze, Foucault, per il recupero di un certo materialismo edonista, gioioso, vitale, libertario (belli i suoi ritratti dei filosofi greci), di un illuminismo radicale e ateo, ed infine, in questo lavoro, del “'68 pensiero”, insieme alla preoccupazione ormai crescente per un certo negazionismo storico.
Una
polemica nata negli ultimi anni in Francia ed importata anche nel belpaese mette sotto attacco il '68 come periodo politico e storico. Onfray con la sua consueta vis polemica non poteva restare estraneo al dibattito, anzi con questo
libro ci spinge a recuperare un'epoca che ha scosso positivamente l'ultima parte del secolo passato, e che anzi dopo le ultime due grandi guerre è stato l'evento storico che più ha influito nella società, per la sua forte carica di liberazione dall'autorità.
Il libro non si sofferma solo su un'epoca, cerca le ragioni della politica e della filosofia,dell'esistenza, nell'insopprimibile segno che il corpo porta, nella sua naturale eversione ad ogni potere costituito.
L'attacco al modello sociale e politico/economico del capitalismo è frontale, dichiarato con affascinante parabola storica e sociale sin dall'inizio, quando disegna la genesi della politica del ribelle fino a tracciare una cartografia infernale (davvero originali i cerchi della nuova miseria) recuperando, storpiando il modello Dantesco.
Esplicita è anche la parte dedicata all'economia (la lezione di Bataille è ingombrante).
Onfray cerca di opporsi a una dimensione utilitaristica dell'economia, cercando di riaffermarne la dimensione ludica, felice, in un mondo totalmente preda del calcolo economico, asservito alla finanza. Il piacere epicureo ancora una volta è la guida del ribelle edonista, in contrasto con gli ideali ascetici di religioni e ideologie, motore di una energia vitale che è lo stato naturale della sua insubordinazione. L'interesse è quello di disegnare la fisionomia di una nuova sinistra (a suo dire mistica) che tenga conto del
divenire rivoluzionario degli individui.
Lontano dalle vecchie ideologie, Onfray lascia aperte tutte le porte di un discorso che si complica man mano che ci si avvicina alla definizione di una strategia o di un disegno politico ben preciso. Fondamentale rimane il progetto di delineare una nuova soggettività radicale, capace di farsi carico delle istanze più dichiaratamente libertarie (e non fintamente liberali), non disdegnando le suggestioni di un certo comunismo anarchico o di un certo anarcosindacalismo.
Non a caso nell'ultima parte c'è il ritorno nell'arena della possibile lotta politica di George Sorel, di alcune figure vicine a quel “nietzscheanesimo di sinistra” tanto care al filosofo francese che vogliono simboleggiare l'insopprimibile esigenza di ribellione come vero movente della storia, fattore insito nel genere umano, che occorerebbe ritrovare in un epoca così dominata dal profitto e dalla violenza come la nostra.
La politica del Ribelle, sposando edonismo etico e anarchismo politico, muovendosi secondo una traiettoria che è della resistenza, dell'insubordinazione, non prevede un processo graduale, ma un teorema di forze liberatrici non violente, forti delle loro necessità. Il parlamentarismo, l'inerzia, la piccola politica, sono esclusi da questo processo individuale e collettivo di sabotaggio.
L'opera rimane un po' fumosa nell'ultima parte, quando alcuni temi che avrebbero meritato più analisi o approfondimento, sembrano risolversi in una dichiarazione d'intenti. Anzi a tratti diventa addirittura macchinosa, con alcune piccole ingenuità che non ci si apetterebbe da un filosofo poco sistematico come Onfray.
Ma non si può non segnalare il valore di un'opera originale e in generale di un percorso filosofico e culturale che cerca di recuperare ciò che la società e il potere (anche filosofico) nella loro ossessione “normalizzatrice” hanno tentato di estromettere, fingendo che i vincenti, falsi feticci del moderno dispotismo, potessero racchiudere tutto il senso di una società, della nostra vita, tralasciando le ombre che ogni sconfitta porta con sé.
di Dario Ameruso