Sul palco, dopo il curioso intro firmato Hayseed Dixie (cover di “Highway To Hell” degli AC/DC), si alternano grandi musicisti, tra cui l’irlandese Gerry O Connor (alle prese con Irish fiddle, mandolino e banjo soprattutto nella parte acustica); lo svedese Mats Wester alla Nyckelharpa, strumento tradizionale della sua terra; il poderoso tastierista Derek Sherinian (in modalità rocker, con bandana e tutto il resto) ed il percussionista portoricano Lenny Castro. Insomma un ensemble che regala calore e invenzione, con il suo viaggio costante tra atmosfere Irish, folk e blues.
La chitarra di Bonamassa (che si presenta al pubblico romano con il nome di Peppe, a sottolineare le sue origini italiane) si muove potente tra mille seduzioni in bilico tra i generi e le epoche. Blues d’annata rimessi a nuovo, delicatezze folk, ma l’approccio infuocato della sua sei corde (in realtà sono innumerevoli le chitarre che lo circondano) non lascia scampo.
Dall’energica “Woke Up Dreaming” per chitarra e voce, alla cover di Charles Mingus “Jerry Roll”, per poi proseguire con la bella e intensa versione di “”Stones In My Passway” di Robert Johnson senza soluzione di continuità. Si prosegue con “Jockey Full of Bourbon” di Tom Waits e una lunga versione di “Athens to Athens”, suonata in maniera eccellente, che dal vivo diventa una session esplosiva per i musicisti, oltre ogni steccato di genere.
Nel set elettrico ritroviamo il Bonamassa punto di riferimento per la scena rock-blues. Il chitarrista capace di fondere passato e presente, emozione e tecnica in una miscela di generi più volte esplosiva.
Coadiuvato dall’eccellente Carmine Rojas al basso e da Tal Bergman alla batteria, che vanno a formare la band elettrica nella seconda parte, Bonamassa sfodera subito una hit del repertorio recente, una “Dust Bowl” capace di rimettere a proprio agio gli amanti del suo stile originario, ancora confusi dai ritmi precedenti. Potenza e raffinatezza negli assoli e una band capace di seguire a ogni passo le virate chitarristiche della sua Gibson.
Si alternano due ottime cover “Who’s Been Talking” di Howlin’ Wolf e la bellissima “Midnight Blues” di Gary Moore. Atmosfere e sonorità rarefatte ci consegnano una delle parti più belle della serata.
Ancora brividi con la potente “Slow Train”, la più recente “Driving Towards the Daylight”, fino alla classica “Sloe Gin”, intensa ed emozionante, e una lunghissima ed esplosiva versione di “The Ballad of John Henry” con l’hammond di Sherinian protagonista e in testa fantasmi e suggestioni targate Led Zeppelin .
Richiamato a gran voce dal pubblico, chiude con due perle a cavallo tra rock e fusion, la bellissima “Django” e “Mountain Time”, brano ispirato che diventa l’ideale e lungo saluto al pubblico affettuoso dell’Atlantico di Roma. Finale con applausi a scena aperta per un chitarrista di razza, capace di regalare fraseggi potenti, ma anche atmosfere ricercate.