Questo teatro perciò non è la conferma di come la morte siamo abituati ormai a pensarla, e cioè sociale, di classe, allusiva e rievocativa, e quindi ogni volta riconosciuta, avveduta, teorizzata, e ripetuta come in un valzer retorico fino alla noia. Cioè anche, ma non solamente. Né è la noia la nostra morte. Non è quel valzer polacco di Kantor che ci lascia ancora così attoniti. Non è questa la morte di cui si muore in questo testo. Anzi in questo testo proprio non si muore. Viene rifiutata la morte proprio come stato mentale e culturale. I morti non ce li portiamo a spalla con tutto il loro peso come fossero quegli zombie rimasti dentro a imputridire, memorie imposte, ristagni letterari (se anche volessimo ricordarli), al contrario: è la vita degli altri che per forza in noi continua a vivere e a gridare. La morte è perciò fisica ed è solo un’eventualità, un incontro, un’ipotesi, una possibilità scongiurata dall’agire, o è l’agire che in sé a volte degenera.
Qui la morte non è quella che non accade, una morte senza tomba sartriana, che dovrebbe accadere, e vorremo accadesse, per distruggerne l’attesa. Non è la fine di tutto, o la fine di noi, o la fine del malessere. Neanche quel meccanismo catartico in senso stretto. Né il coro di una tragedia, la condizione generazionale della sconfitta o uno stato inconsapevole (o anche consapevole) dell’io. Non una esatta interpretazione filosofica, la volontà di una profezia che pedissequamente si avvera per come l’abbiamo sociologicamente e psicologicamente prevista. Non è in quella forma “liquida” che le apparteniamo. La morte non è un liquido amniotico. La vita è invece quel liquido.
Non quindi ripetizione, ossessione, circuito. Perché se fossimo morti in questo modo, soltanto metaforicamente, per allusione scenica o proiezione, il bisogno istintivo del mare sarebbe stato solo una scelta estetica e scettica. Senza quel realistico tumulto interiore che è la nostra forza alla vita, e che ogni volta ci fa affogare dentro, è vero, ma poi, fuori tempo massimo, ci costringe di nuovo a respirare, anche quando andiamo giù col naso tappato per forza, e anche quando è solo per gioco che vorremo non più respirare. Anche se quel giuoco sarà l’uccisione di una sorella, che perciò non porterà più con sé in avanti il nostro destino.
Che forse quelle parti scure, proprio quelle più dense, debbano servire, e non solo per contrasto, alla vita che stiamo opprimendo, proprio contro un’apologia dell’oppressione che ci vorrebbe già tutti perdutamente sconfitti? Come se dovessimo corrispondere a quell’autoesaltazione della stagnazione, paludati come per perseveranza? Invece scongiurarla quella stessa nostra idea cerebrale che ci ha tolto il desiderio di ballare, e di amare, gridare, saltare, sbraitare, mordere, ingoiare, spingere, abbracciare, fischiare.
Per questo la vita si strofina sotto i nostri più cupi vestiti, alla fine tirando fuori quelle vestagliette sguaiate da interni promiscui. La portiamo nascosta dietro i nostri cliché la vita, tutti i nostri cliché, anche quelli di rivolta e di rivoluzione (più spesso soltanto esercizi di stile).
Questo pezzo teatrale è quindi la vita considerata per ogni sua deformazione, non la celebrazione del rito luttuoso che è solo “contesto”, né perciò una sua rielaborare estetico/cerebrale. È dal rito luttuoso che la vita proprio vuole sfuggire, con risate nervose, salti trattenuti, gesti e smorfie liberatorie, magari mettendosi nuda per un finale rosa nel tutù di una ballerina occasionale.
È una celebrazione della vita, brutta com’è. Noi siamo vivi anche se non vorremmo più esserlo, anche se ci sentiamo morti, anche se sono gli altri che ci vedono morti, oppure morti sembriamo a noi stessi nello specchio performante di una colta evoluzione estetica del concetto. E la carnalità è il nostro rifiuto, il rifiuto a questo ingombro intellettuale tanto abnorme.
È infatti il desiderio della morte, non di disgelarla, ciò di cui forse non riusciamo, non ci vogliamo liberare. E non perché abbiamo semplicemente paura della vita, forse perché vorremmo quelle nostre emozioni racchiuse in categorie intellettuali che sono più confortanti (magari quelle di un martirio cristiano, o quelle di un materialismo ideologico caparbiamente appagato). La morte intesa come un crogiuolo artistico ed estetico. Il nostro modo più tragico di sottrarci.
Leggendo tutte le critiche a questo spettacolo (certo tutte positive come immaginavamo dovessero essere), cresceva come un forte dissenso verso un pensiero più o meno comune, più o meno latente, e davvero troppo luttuoso. Come a voler riscattare quei volti forse banalmente intravisti, come maschere, soltanto caricature di dolore e sconfitta, avvolti dal buio di interpretazioni dentro alle quali forzatamente venivano incastonati come relitti (eppure i pupi, proprio per scelta registica, dovevano risultare come ormai scongiurati, lasciati gli scudi alle lapidi, ai piedi di questa magica evoluzione narrativa). Liberarli invece quei volti così veri, da quelle processioni di contorno, come stormi di uccelli neri nell’aria che volano. Nella speranza forse di una migrazione concettuale possibile, annullando quella percezione emotiva che non riesce a vedere tutto l’azzurro del cielo che c’è dietro a quei voli convulsi e inquietanti.
Non è la morte la poetica centrale di questo spettacolo. E nemmeno la catarsi così come irrimediabilmente intesa. La meraviglia di quest’opera è al contrario la vita come eccesso, cioè anche durante e dopo la morte, addirittura a causa della morte. Proprio perché vince su questa nostra condizione spirituale subita e radicata di sofferenza dovuta. L’urlo iniziale supera i fantocci della morte cui siamo da fin troppo tempo abituati, e nello stesso modo quelle bocche aperte dal silenzio dei cadaveri. Va proprio oltre i cadaveri, in un processo emotivo interiore forse non ancora concluso, ma che non vorremmo comunque esaurito, o definitivamente esautorato in pensieri feticci.
Anche la frase finale della sorella più grande: “Un mi faciti scantare. Signu propriu io ca signu morta?!” (più o meno) tenta quel superamento del rito, di quel dolore per come semplicisticamente inteso, per come è stato teoricamente cristallizzato.
Le emozioni sono state altre. Sette sorelle (come i sette personaggi di Kantor?), donne (che perciò tramandano la cultura, oppure ne permettono il cambiamento) si trovano in un cimitero (questa nostra società, ma certamente oltre quel teatro di morte) e ridono e giocano sui cadaveri della loro famiglia (gli obsoleti valori sociali della conservazione). E intanto è proprio il ricordo della mamma che le conforta a continuare a giocare e a scherzare, a sognare: “mettetevi il rossetto ogni tanto”. “Avrete sempre sia torto che ragione, e in ogni caso non conta”. Il racconto dei vostri lutti deve essere superato, sembra dirci. E ancora: di fare l’amore con passione, superare la morte con la vita, anche se malati, anche se sfiniti, anche se finiti, anche se sfruttati, anche se umiliati. E ballare, ballare, ballare.
Questo testo è un capolavoro e la regia è molto complessa, ma allo stesso tempo misurata e commovente, senza quei picchi di autoreferenzialità tipici di chi ha raggiunto oramai il successo (come è, ed è del tutto meritato, per Emma Dante, protagonista assoluta della scena drammaturgica contemporanea).
Gli attori sono perfetti (Serena Barone, Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Italia Carroccio, Davide Celona, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso, Leonarda Saffi, Stephanie Taillandier), corrispondono anima e corpo al disegno così meticolosamente realizzato. Il dialetto è la forza del linguaggio. Il corpo il territorio per ogni immaginario possibile.
Visto al Teatro Palladium di Roma il 4 febbraio.