La pelle che abito. Si reinventa coerentemente uno dei registi più carnali, più affascinanti e più eclettici del panorama filmico internazionale degli ultimi 20 anni. Un tentativo di reinvenzione che tuttavia non sfugge alla firma inconfondibile del regista spagnolo che ammette " di aver pensato ad una pellicola alla Fritz Lang " ma che poi capisce di " voler comunque fare un film di Almodovar ". Alla sua maniera. E ci riesce ( forse non convincendo appieno i suoi critici estimatori ) e riemerge nei bellissimi piano-sequenza ritratti come acquosi quadri ancora bagnati, dipinti con colori all'olio, pronti a essere continuamente rimescolati. Il rosso carnale delle labbra delle sue donne, tutte marcatamente sensuali e apparentemente piegate ad essere oggetto, mezzo, conduttore di fluidi e di emozioni. Eppure definitive, letali, volitive e alla fine decisive negli esiti reali delle storie. Di tutte le storie. Almodovar che riemerge nel rapporto sempre originale e problematico con il corpo, con la sessualità e le sue facce contraddittorie, mai pienamente dichiarate. Si riconosce dai dettagli semantici della scrittura registica, volutamente dilatata, come a sorreggere l'impianto intero della storia che racconta la metamorfosi fisica della sua protagonista, la bellissima Elena Anaya ( Vera ) già protagonista di Parla con lei. Quasi elementari i dialoghi, opposti alle complesse descrizioni delle personalità che si lasciano attraversare come stanze che somigliano a monadi, chiuse al mondo eppure continuamente contaminate dal mondo.
E' un guardare il dentro attraverso errate considerazioni dell'esteriorità, questo film che sperimenta i canoni descrittivi del thriller e che trova in un livido e cinico Antonio Banderas ( il chirurgo plastico Robert Ledgrad ) un interprete inatteso.
Al corpo per il corpo, La pelle che abito racconta del possesso attraverso il possesso e dell'impossibilità di alcuni di comprendere come la fisicità non garantisca mai, in alcun caso l'effettivo appartenersi, l'effettivo darsi. E' un film che mescola gli aspetti vojeuristici del'ideologia del grande occhio che sorveglia attraverso mille corpi da telecamera ( e diventa quasi un metafilm ) e che raggiunge le tematiche del cambiamento estetico e della fallibilità che spesso ogni mutamento esteriore reclama, quando non è sorretto dal vero e reale cambiamento che è quello dell'anima.
Ispirato al romanzo di Thierry Jonquet, Tarantola, La pelle che abito cuce insieme lembi apparentemente incongruenti di diverse esistenze e le mescola, le manipola, in modo shelleyano come per creare un nuovo Frankestein. Non è un caso se Almodovar sceglie i colori scuri della notte, i verde velluto, i bronzo dorati, il ruggine forte delle pietre vive di un casale lontano dal mondo, simile ad un castello in cui compiere esperimenti innaturali. Morte e vita si confondono. Ma la confusione è inaccettabile: perché alla vita non si ritorna se non nella mente. E quando la mente è malata si crea quel cortocircuito feuilletoniano per cui l'uomo si crede dio. E immagina di dare la vita. Quello che nasce ha sempre in sé le radici della morte. E alla morte conduce.
Apparire non è mai essere.