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“Banquo”. Non è un regicidio, è il tradimento di un amico.

“Banquo”. Non è un regicidio, è il tradimento di un amico.

"La vita è un'ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente"
William Shakespeare
(12 aprile 2013) Il testo è di Tim Crouch, “Banquo”, sulla tragedia shakespeariana di Macbeth. L’interpretazione è dell’Accademia degli Artefatti, con la regia di Fabrizio Arcuri. Il personaggio è messo in scena da un convincente Enrico Campanati. Trend è la rassegna: “Nuove Frontiere della Scena Britannica”. Al Teatro Belli di Roma.

Ma di nuovo e di frontiera in questo spettacolo, a voler essere sinceri, non c’è molto (a parte l’autore), e la riflessione è che la Compagnia degli Artefatti ci pare stia vivendo, purtroppo, un momento di stallo (com’è del resto per tante altre compagnie, di Sistema, contro-Sistema, o sotto-Sistema). Una sorta di decadenza espressiva che ormai ha fatto il suo tempo, e perciò vive la sua agonia, la sua smania.

Che non sia arrivato forse il momento di superare anche questa forma, questo schema, questo contenitore dell’Arte-Fatto, un modello masticato già fin troppe volte, ormai, e in quell’unica di-spiegazione possibile? La manipolazione dello spettatore. Questa formula usata e abusata (importata), eppure dis-velatrice delle abilità teatrali degli Artefatti, sembra al momento soltanto il grottesco del già espresso. In eccesso, ogni volta esagerarlo, esasperarlo. Il tragicomico dell’autoreferenzialità.


Assai innovativa in moltissime delle sue operazioni drammaturgiche, la Compagnia pare oggi assestarsi sulla ripetizione, di quella sua stessa idea iniziale, di quella intuizione trascinata avanti come prerogativa, su cui pure il lavoro è stato enorme e gli sforzi hanno portato a significativi e meritati successi: l’idea dell’arte-fatto, da cui appunto la compagnia ha preso anche il nome.



Il problema serio è che però, dopo forse più di dieci anni, dopo aver creato un circuito di estimatori-attori e compiaciuti “lettori”, cultori, della “nuova” scena “contemporanea”, dopo cioè aver elaborato l’idea (dell’arte-fatto, come dicevamo) su più fronti (per diverse manifestazioni teatrali), e anche, almeno all’inizio, in una maniera assai eloquente, attraversando autori illuminanti (come adesso Tim Crouch, e prima Martin Crimp), a dimostrare che sono gli spettatori a subire il senso del vuoto della comunicazione, della narrazione alterante, falsificante, artificiosa, adesso quel senso ha finito per corrispondere totalmente, e soltanto, ad un involucro di artificio. Falsità teatrale. Il concettuale senza emozioni.



Non può essere questo l’obiettivo ultimo raggiunto di tutto un percorso, perché nel passaggio dal fatto all’arte, e nello sforzo che l’arte fa di proiettare il fatto, c’è pur sempre da considerare la finzione, cioè l’immedesimazione emotiva, e quindi anche il rapporto sempre nuovo che si instaura con lo spettatore, che perciò non è fermo, non è l’unica variabile implicita su cui far funzionare il resto. La finzione è assai diversa dalla falsità, diametralmente opposta (seppure è la falsità che deve essere rappresentata).



Se poi si vuole sostenere che non sono più i personaggi e le parole, ma gli oggetti e le situazioni, le astratte dinamiche relazionali, i dettagli, a far esplodere e oltre-passare la scena, tutto questo approfondimento dell’azione teatrale non può poi ridursi a essere un delirio della figura (fantoccio) in scena, (spesso di auto-convincimento/compiacimento). Il vero è falso, tutto è situazionale, io sono il mio braccio, interazione e improvvisazione partono da me, lo spettatore lo manipolo come voglio con alcune provocazioni pronunciate senza introspezione, ma solo a causare: effetti e reazioni. Forse sto solo manipolando l’idea fissa che ho di quello spettatore. E questa idea adesso è forse diventata fin troppo stretta. Una presunzione.



Così, dopo aver afferrato che in un gesto c’è tutta la sua complessità, lo si ridicolizza e lo si annulla nella ripetizione, anche solo nell’insistenza di “volerlo fare capire” esattamente “come lo si è capito”. Invece che stimolo allora diventa regola. Il dettaglio, l’oggetto, la singola forma del corpo che invade la scena e la divora, vengono come banalizzati, intrappolati, in una ideologia drammaturgica (che come tutte le ideologie fa presto il suo corso).



E l’asfissia dipende in particolare dall’esigenza degli attori, costretti evidentemente dalla regia, che segue quella sua stessa teorizzazione, di spiegare al pubblico ogni volta ogni loro singola evoluzione drammaturgica a costruire una subdola “interazione” calcolata. Una sorta di ostinazione esplicativa a ogni pie’ sospinto, che per forza sminuisce l’osservazione e l’osservatore (la sua empatia, la sua capacità di immedesimazione). Lo spettatore ogni volta si vede costretto a un comportamento passivo nel quale è stato tragicamente recintato, in una sorta di radical cliché; il volergli fare capire a forza, a costo anche di beffeggiarlo, il senso “vero” (falso) di quella sua presenza (non presenza) dentro e fuori quella scena, fruitore “scelto” di quel dramma ab-usato (e come quello, allo stesso modo, spettacolarizzato).



Così il personaggio cardine di questo spettacolo è un one man show, con chitarrista rock sfigato accanto (anche aggiustatore di suoni), sotto un sipario anni ’70, con i pantaloni bianchi a zampa. Banquo, uno di noi, uno che è stato tradito dall’amico Macbeth, che infatti l’ha ucciso. Ucciso come ha ucciso il re. E convinto ad uccidere da una donna che si trova proprio in sala.



Salito al trono, vorrebbe restarci. Che nessuno attenti a quella fortuna, seppure cercata con il sangue...questa è la trama, ma la trama vuole anche che egli non sopporti quel suo stesso delitto...



Banquo, l’amico, è un fantasma e ci fa visita fra i sensi di colpa, il presentatore rocker in scena che ci racconta del sangue e dell’orrore in una visione pop. Ma gli altri, i suoi nemici, dove sono? Vengono scelti fra i suoi fan, intravisti fra gli spettatori incerti. Così è per Macbeth, così è per il re di Scozia Duncan. Sono fra noi.



Se assistiamo, partecipiamo. Ma con fastidio. In questo “coinvolgimento” è come se ci venisse addebitata tutta la colpa, è come se venissimo stigmatizzati alla rappresentazione: siamo noi quelli in carne e ossa che abitano questo luogo del crimine, quell’altro è solo un fantasma che ci spinge ad autoaccusarci...e lo fa da un palco(scenico), che lo isola come “giusto” rispetto a noi, che invece siamo la feccia. Evidentemente siamo davvero colpevoli (possibilmente colpevoli), e così, per disagio, per quella nostra appena scoperta responsabilità (che ci è stata provvisoriamente appiccicata), ne ridiamo. Tutti indicati come traditori rispetto a Banquo, e solo perché sappiamo del tradimento...il regicidio è un aspetto secondario che non ci riguarda. Tutti traditori rispetto all’Altro, al cui assassinio assistiamo ogni giorno, inetti. Traditori di noi stessi e della nostra stessa natura.



C’è poi quell’effetto speciale, pulp, che a livello percettivo ci sconvolge, e a livello intellettivo ci affascina...il sangue, il sangue che spruzza dalle mani dappertutto, che sgocciola in ogni dove sul bianco della scena, e che (solo apparentemente) sporca i vestiti di chi è lì, davanti....ma è polvere di velluto mischiata a gel per capelli (ci viene detto!), eppure ha l’aspetto fangoso di un crimine com’è reale. Divertente. Forse! È “il fango” di cui spesso ci cibiamo davanti alla televisione. Questo sembra essere il suggerimento. Ma adesso che veniamo portati noi stessi in scena...come lo giustifichiamo? Come lo spieghiamo? Ridendo, anche se ci fa schifo (“che schifo” è la frase che più volte usa Shakespeare nelle sue opere!). Pensandoci: non è sangue (eppure è vero-simile).


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