L’invenzione di Bertolt Brecht è di raccontare una vicenda umana universale, la lotta tra il bene e il male, tra povertà e ricchezza, tra paesi ricchi e paesi poveri, ma ambientandola in un’epoca che potrebbe essere qualunque. Una Cina di fantasia dagli anni trenta a oggi. Il bene affogato dal male. Il bene che non riesce a essere. Il bene che non ce la fa a resistere alla necessità dei soldi.
Una
favola triste e colorata come è l’occidente moderno (naturalmente a scapito dell’oriente), raccontata dalla regia con le sfumature rosso e viola di lucidi colori alla moda, apparenze, ma sotto la luce fioca delle lanterne cinesi.
Fatta di impressioni magiche, ma sovrapposte a fondali bui di
inquietudine, eppure solamente intravisti, e invece suggestioni e specchietti di plastica, quasi per dire: anche i sogni sono “cinesi”, forse sinonimo di “contraffatti”.
Una favola con tanta gente che brulica veloce, che va e che viene e che ruba di te, e passando dalla tua vita ti lascia sempre più povero delle tue stesse risorse emotive.
Presto svuotati dai bisogni primari esistenziali: l’amore e l’amicizia. La storia è comune.
Uno ci mette tutte le intenzioni e la volontà a essere buono, ma appena
l'altro se ne accorge intraprende come un irriducibile combattimento pur di farti capitolare. Un accanimento. È il bene che attrae il male, o viceversa. È questo forse il mondo.
Una
prostituta (che si dà a tutti) si toglie dalla strada con l’aiuto degli dei e apre una tabaccheria. Ma una volta ricca, le persone che prima la dispregiavano adesso nuovamente le si accollano come delle “sanguette”, e anche l’amore…è di nuovo un’immagine artificiale, solo proiezione di un intimo desiderio.
Per difendersi e difendere la tabaccheria, unica possibilità di resistere, e per non ritornare
sulla strada (dove però sarebbe rimasta anche più felice, certo più buona) la nostra protagonista, una meravigliosa
Mariangela Melato, deve guadagnare sempre di più.
Si inventa perciò una catena di montaggio…ma per mandarla avanti si fa sostituire da un alter ego più cattivo, un affarista, un cugino inventato che non si fa scrupoli e non si fa intimidire dalla miseria e dalla disperazione di tutti quei poveracci che alla tabaccheria, ai soldi, rimangono aggrappati per sopravvivere.
Ma il cugino è lei stessa, cioè prima buona e poi cattiva, che dà e che toglie, che si sottomette e sottomette, che è vittima ma anche carnefice. Assolta e condannata, dipende dal travestimento…ma dietro a quella maschera, così intransigente, spera ancora di avere un bambino, un futuro diverso.
Esattamente come speriamo un po’ tutti, fatti di quella materia complessa che è la vita che si autorigenera. E possiamo fare anche a meno delle divinità quotidiane, sappiamo già da noi alternare e dosare giorni felici a giorni tristi; amore e dolore; gioia e disperazione; la nostra bontà con la nostra cattiveria, quando serve.
Superba messa in scena, con un lavoro di regia e di interpretazione davvero eccellenti. E poi resa molto, molto interessante dai colori e dalle atmosfere della favola orientale.
di Chiara Merlo