E i giornali, per sopravvivere, vivendo solo di finanziamenti statali (distribuiti politicamente), non solo riescono a fare a meno dei lettori, cosa assai bislacca, ma riescono a fare a meno anche dei giornalisti, usando, per lo scopo, stagisti, tirocinanti e precari di ogni sorta. Tanto, l’informazione, immediata, ordinariamente puntiforme, si costruisce per semplici frasi standard, preconfezionate, e il più delle volte scritte a tavolino con il direttore, con banalità e saccenteria. Di questo nuovo tipo di informazione molti riescono a compiacersi. Conservare quella notizia, fatta in quel modo, per portarsela dietro in una cartellina, in quella rassegna stampa che riesce a confortare il proprio operato, che permette di raccogliere consensi proprio fra i politici, e gli entourage che quei politici sostengono, cui, nolenti o dolenti, bisogna rispondere e “corrispondere”. Non è un caso che siano gli uffici stampa a delimitare il giornalismo del nostro tempo. E tutto questo nonostante si parli sempre di più di comunicazione in termini di nuova frontiera della cultura contemporanea Ma se i giornalisti che insegnano il giornalismo (nelle scuole di giornalismo!) sono a loro volta metabolizzati da questo sistema che non ha maestri, spesso onorati solo come giullari di corte, senza che perciò riescano a loro volta a dare un vero contributo, né creativo, né dirompente per l’informazione, tanto meno per la cultura, non riuscendo a sperimentare o a conservare neanche un loro proprio stile o modo di fare informazione, come possono gli “apprendisti” farsi carico del cambiamento? E questi apprendisti, poi, come vengono intercettati (tutti freelance!) dagli editori/imprenditori che vanno a braccetto con i potenti? Attraverso dei master di alta formazione o attraverso opportunistici contatti fatti dietro le quinte, dove lo scambio di materiale umano, qualificato e soggiogato, avviene solo per opera di convenienti raccomandazioni? E allora il giornalismo – pensiero, d’assalto, subdolo ma accattivante, si fa avanti usando le menti vergini vittime del ricatto, che scrivono come viene loro detto pur di mettersi in gioco, accettando tutte le “autorevoli” istruzioni delle lobby che dietro quelle loro confezionate parole si trincerano vincenti. Che il giornalismo non debba essere auto referenziale, né solo di opinione, siamo tutti d’accordo, che l’approfondimento spetti solo a temi freddi che riguardano il passato o personaggi non del nostro tempo, un po’ meno. Succede infatti che, sia pure con la semplice edificazione di uno stile, gli organi di stampa di larghissima diffusione siano controllati e controllanti dell’informazione e perciò anche dell’opinione!), e ogni diverso racconto della realtà, anche perché solo di profondità, venga messo fuori da quel circolo vizioso della verità impacchettata che per essere condivisa, apprezzata, deve seguire un metodo preciso, convenzionale, il montaggio seriale, veloce e indolore, dei “dati obiettivi”. Il risultato è questa sorta di ibridazione del pensiero, il flat delle idee, che si organizza piano, piano, determinato anche da questa massificazione del giornalismo che perciò ci nutre e si nutre del nulla, e che impone una sua necessaria caratterizzazione e definizione condivise che neanche più possono essere messe in discussione dai singoli. Ma chi stabilisce le regole del giornalismo? Ombre di autoritarismo e oligarchie nascoste decidono come distribuire la realtà dei fatti. E allora, in questo contesto, succede che i giornalisti scomodi vengano facilmente e silenziosamente defenestrati, o anche solo furbescamente messi da parte, a occuparsi di altro, o a occuparsi più di niente, se hanno trattato temi scottanti (come ci riferisce Elia Banelli di “Agora Vox” con riferimento ai giornalisti che liberamente ci hanno raccontato della vicenda delle Procure di Catanzaro e Salerno) cercando di capire (come cerca di capire Paolo Praolini dello stesso sito web) perché Carlo Vulpio del Corriere della Sera sia stato “estromesso dalla sua libera funzione sul caso calabrese”. Di De Magistris i giornalisti “veri” non parlano tanto (e se ne parlano con onestà intellettuale…sappiano esattamente la fine che fanno). È una notizia che non fa notizia. Del resto verrebbe raccontata costringendo l’opinione pubblica a troppi approfondimenti che riguardano la politica corrotta, i magistrati corrotti, la criminalità organizzata che vince su tutta la nazione e non solo, la criminalità economica che specula sul non lavoro e sulla crisi finanziaria. Insomma, sono troppi quelli che preferiscono il silenzio. E allora che i giornali muoiano, come sta succedendo, è una necessità, perché deve morire questa prassi giornalistica al vuoto organizzato di parole, sperando che siano altre forme di comunicazione a prendere il sopravvento. Per esempio quella del giornalismo partecipativo, del Web 2.0 (anche con tutti i pericoli che questa forma di distribuzione comporta), e perché comunque usa il metodo interattivo, e eventualmente di confronto, e che viene dal basso, quindi potenzialmente più democratico, e certo meno assoggettato, almeno per tentare di “trapassare” questo impermeabile sistema di sopraffazione mediatica, occulta, che non accetta, anzi annienta, ogni pensiero critico.
di Chiara Merlo