Anna e Luca si affrontano in una stanza. Prima parla lui, e lei deve stare zitta, in piedi, senza crollare. Poi parla lei, ma lui non riesce a non accasciarsi. La loro storia è finita, ma ne hanno un’idea di fine diversa: un piano relazionale solo razionale, e l’altro invece affannosamente emotivo. Ma tu da che parte stai? Su questa scena non puoi non salire, non puoi sottrarti da quel dialogo così fitto e nervoso, come in un “campo chiuso” e congelato dove le dinamiche relazionali diventano coordinate per ogni invisibile gesto. E allora devi decidere solo in base a quella doppia contrapposizione dialogica. A chi devi dare ragione? Prenderai posto in una delle due voci, a prescindere dall’immedesimazione di genere.
Luca è perentorio (e dice: “non si può continuare per sempre, capisci”); pragmatico e inflessibile (“è possibile che io trovi un altro corpo al posto tuo, può darsi che io trovi un’altra pelle, si una pelle che non è la tua”); superficiale (“si, ti ho detto amore mio, e allora?”); arrogante (“sei diventata un’estranea per me e io diventerò un estraneo per te, fra qualche minuto non sapremo più nemmeno i nostri nomi”); definitivo (“la natura è morta, ora ci serve solo piatti freddi, pesci con gli occhi verdi, bicchieri vuoti, e stoffe di taffetà macchiate e senza luce, la tavola è sparecchiata, gli invitati se ne sono andati e i vermi avanzano...si arrampicano sulla mano bianca, penetrano nelle vene e escono dal cranio della fanciulla morta”); diabolico nelle sue allucinazioni verbali (“non voglio queste lacrime, queste presunte lacrime, queste lacrime sono l’espressione di uno smarrimento filosofico”); crudele (“non si può continuare in eterno a fare come se la vita fosse tutta rose e fiori, la vita non è tutta rose e fiori”), e perché nessun’altra possibilità possa essere (“la messa è finita, non starò a farla lunga cent’anni”); chiuso, in quel suo paradigma ideologico di relazione (“tutta questa vita che noi dovevamo vivere insieme vado a viverla altrove”); delirante, quando le dice di smettere di sanguinare (“il tuo corpo sanguina Anna, schizza a piccoli getti, ci sono tagli nelle vene fatti con l’accetta, ci sono buchi nelle arterie e schizzano fuori tanti piccoli zampilli, la pelle è bianca e il sangue sgorga a piccoli getti di sangue di latte e di lacrime, io non lo trovo divertente, non trovo divertente veder colare il sangue...non lo trovo divertente, non è fun, non è fun vedere le parole fare delle macchie”); egoista (“puoi tenerti tutti i libri che abbiamo comprato assieme, gli oggetti, i libri che ti ho regalato, ma non la sedia con i ricami rosa, mi dispiace ma tengo la sedia a ricami rosa, Anna, puoi fare tutte le bizze che vuoi, ma la voglio, la tengo io”); e così la esclude da ogni futuribilità di quel loro tempo trascorso insieme intensamente: agghiacciante (“stai diritta per favore”), per il gelo che si diffonde dopo il suo dare fiato; altero per quel suo inglese inutile (“la vita si è sempre svolta così in modo over fluido, si over fluido, e allora?”); vigliacco (“ti avviso Anna e te lo ridico, non tentare niente contro di me, non provare a cancellare il mio nome, a oscurarmi, detesto questo post-odio”); spiacevole, per i ricordi portati in mezzo, mutilati, torturati, dissanguati (“vedo tutti questi anni, tutti i nostri anni, come dicono le coppie, tutti questi anni che abbiamo passato insieme li vedo fondere in silenzio nel tuo corpo, se ci fosse della gente qui vedrebbe come me il crollo di tutti questi anni nel tuo corpo al rallentatore”); banale, perché dice di soffrire ma non soffre (“volevo vederti, volevo solo dirti che questa cosa è finita).
Poi cade il sacco che lei porta come borsa, e dopo un intermezzo di voci di bambini, parla lei. E a iniziare fra quelle foglie, in quel marciume, sembra tutto molto più difficile.
Anna è incerta, con quella voce che viene giù dal fondo (dice “Luca, le cose devono essere bilaterali come le guerre”); comprensiva (“vedi le parole, è vero, a volte ti vengono in bocca troppo rapidamente...in effetti il mio corpo è svuotato, non ho più occhi...penso che mi si vede anche dentro, e si vede che dentro non c’è più niente...gli occhi mi si confondono con i polmoni...c’è del pus dappertutto, il pus esce da tutte le parti”); poi di slancio ritorna idealistica (“io ti ho amato Luca, ti ho veramente amato”) e dolorosamente interiore (“vedi bene che tu uccidi la lingua di cui noi eravamo costituiti, nel ritrattare, nel rimangiarti la lingua, la uccidi, la nostra lingua comune, uccidi la nostra casa, e le nostre parole cadono stese morte, si, qui per terra ce ne sono tante, e tu le hai calpestate”); ma ancora gentile con chi la sta uccidendo (“i ballerini conoscono questa regola aurea della loro arte, è l’interno che si vede muovere sulla pelle, non il contrario”); eppure caparbiamente reattiva di fronte alla freddezza (“ti proibisco di parlare del mio talento, del mio lavoro...di quelle che tu chiami le mie superfici, le mie cose silenziose, di quello che tu descrivi come il percorso dal di dentro, di quello che tu descrivi parlando del lavoro ingrato che ciascuno ha il dovere di compiere verso l’esterno...non accetto che tu ne faccia oggetto di discorso...la mia vita interiore la tengo per me, ed è al servizio della mia presenza esteriore...tu hai tirato fuori tutto, e tutto è a vista”); perciò anche lei crudele e violenta (“la mia interiorità ti si butta addosso in faccia, alla gola, e sta facendo a pezzi il tuo scintillante aspetto esteriore”); si impunta e diventa volgare, ma per spiegare l’offesa, l’umiliazione (“coglione”) e amaramente ironica (“credi che l’amore sia uno stage d’informatica? ...che si possono fare dei salvataggi e svuotare il cestino”). Ma come possono le parole diventare all’improvviso così fredde? Lei è e rimane una donna che ha amato (“e il dolore è talmente forte che tutto diventa bianco, il suono, l’acustica, le pareti, le facce, all’improvviso tutto esplode e tutto diventa bianco...è quello che si vive in questo istante, si è vivi, ma si è morti”); e chi ama è assoluto, ma non definitivo (“lo vedi l’amore è stupido, mi preoccupo ancora di te, ho pure risposto a tutto quello che mi hai detto o quasi...vieni amore mio, guarda il mio corpo, ti tendo la mano, la vita si può redimere, si può riscattare, si il perdono è dappertutto ”). Lui non si muove e tutto finisce. Tutto in quella stanza bianca e gelida si ferma, anche nella nostra immaginazione. Fin quando lei non la fa bruciare (“puoi tenerti la sedia con i ricami rosa, puoi tenerti tutto...tu mi permetterai di tenermi le cose immateriali che sono in me e non potrai mai volerle indietro”) con un’ultima speranza (“spero che tu abbia una vita interiore”).
Questo testo ricorda un po’ “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes, ma in qualche modo lo supera. In quello solo le parole, come abissi, i simboli delle parole, i simboli condivisi. In questo c’è un interazionismo simbolico, che perciò è in movimento. “Clôture de l’amour” non è quindi la statica rappresentazione per immagini ferme delle dinamiche che si sviluppano in seguito ad una parola usata e solo considerata in astratto (anche se è di riferimento al discorso amoroso), è l’emozione che si muove fra la portata delle parole oltrepassando quella loro simbologia.
La parola è tutta tua, al di là dell’uso che ne fa la gente, e parla di te, di come vivi, di come stai morendo.
La regia è superlativa perché non muove niente. Così, tutto è subìto.
Il testo pluripremiato di Pascal Rambert (messo in scena in tutto il mondo dopo il suo debutto al Festival d'Avignon nel 2011) è andato al Teatro Vascello di Roma dal 3 al 14 aprile, con due attori meravigliosi: Anna Della Rosa e Luca Lazzareschi.
EMILIA ROMAGNA TEATRO FONDAZIONE
Theatre de gennevilliers - Cloture de l'amour - Pascal Rambert - Festival d'Avignon
foto Pascal Rambert
foto Anna Della Rosa
foto Luca Lazzareschi