Glauco Mauri e Roberto Sturno si prendono gioco del tempo lasciato in mezzo, fra noi e loro, fra l’autore e la sua vita, fra tutti gli individui che vanno eppure non sanno...
Nel “Prologo” due lerci barboni, consumati, irriconoscibili, si nascondono nei bidoni, e sbucano fuori ogni tanto per dare voce alla loro fine. E poi c’è quel “Respiro”, primo e ultimo...ma in ogni caso così definitivo! Fragile e intenso, di nascita e di morte, di gioia e di dolore, di pace e di impazienza. Sull’immondizia del mondo. Un respiro di vita che si apre e si chiude sull’immondizia che è il mondo. Ed ecco che la scena cambia e si fa assoluta. Con l’immagine riflessa della donna amata in una parrucca. Surreale. Divertente. Angosciante. I pugni sul legno sono rintocchi, per frasi ripetute che non devono essere fraintese. Un gelido azzurro che non può essere il cielo. (In)Azioni senza parole, (atti in verità che sono già dati) inspiegabili, le nostre intenzioni mortificate a lungo, proprio “mortificate”, uccise e così fermate nella loro morte. Eppure continuare, aspettare, respirare, scriverne. Infine riascoltare.
Ed è proprio quando lo vedi dondolare nel buio, avanti e indietro davanti ad un nastro (“L’ultimo nastro di Krapp”), venire sotto la lampada e poi andare via...quel viso che appare e scompare sui propri fogli, quel rialzarsi, fare qualche passetto nel vuoto, sugli abissi, ma poi ritornare incollato su quella sedia che dondola, che forse dondola per il dolore, perché passi, avanti e indietro, infinitamente...è in quel dondolare che trascorre un ricordo, più e più volte, un amore, una spina, un dolce cullarsi sulla riva, quell’incertezza sulla soglia, il vento che cerchi, ma solo nel tuo passato...e non c’è più, non lo senti più, il vento è andato e perciò ti accasci. Non averlo sentito soffiare, averne sprecato quella sua direzione.
Gli occhi, ti restano gli occhi, ora sono lucidi di lacrime, ma sono stati occhi chiusi, poi fessure di fronte al sole, per finire sbarrati a lasciare entrare...a lasciarsi entrare.
Questo spettacolo è molto suggestivo, ma anche molto doloroso. Doloroso perché doloroso è l’autore, i suoi scritti, quelle bolle di vuoto fra le parole, che se scoppiano lasciano ferite non solo d’inchiostro. Ma doloroso perché dolorosi sono insieme gli attori, quegli attori che dondolano sugli abissi dei loro personaggi e poi si riascoltano feriti allo stesso modo. Sono attori eccellenti, perché non hanno preso in prestito angosce, le hanno prestate. Tra il buio e la luce, tra il chiudere gli occhi ed essere accecati, la voce riprende parole che stavano per morire, e vogliono acqua per essere annaffiate...ma l’acqua non c’è!
Brividi di Beckett oltre ogni espressione, lì restano attaccati i vuoti e le sconfitte.
("da Krapp a Senza parole", Piccolo Eliseo, fino al 21 aprile)