L’
Opera Panica è il culmine di un teatro che coniuga l’incanto magico della scrittura e le immagini surrealiste, spezzate in microscene simili a ritagli di esistenza, unite in un
unicum di insana e perenne insoddisfazione.
Siete ancora in tempo ma non è ancora tempo.
Verranno giorni limpidi. Ma forse non adesso...
L’essenziale diventa un nero totale, in cui sprazzi di rosso si mescolano alla complessità dei microframmenti dell’opera tragico-ironica del maestro cileno, riletta dall’eclettica ma fedele e delicata regia di Pietro Dattola.
E’ un intricato e fitto fiume di dialoghi al limite del paradosso linguistico e dell’ironia dolorosa in cui la somma dei movimenti, delle movenze dei corpi, delle storie raccontate nel cono di luce che ruba spazio al buio totale sono tentativi e giochi tesi all’assurdo, in cui gli interpreti percorrono l’intera linea espressiva del linguaggio. Nei loro ruoli circensi, gli attori toccando i toni comici e buffi, l’ironia elaborata e tristemente tagliente fino a raggiungere la poesia più limpida e il dramma silenzioso, in cui generali-domatori sono sempre in guerra fra loro e ogni uomo-clown riesce a fare guerra, spesso, solo contro se stesso.
Il filo rosso che lega ogni racconto, fuori da ogni metafora, è un laccio che ogni uomo, su questo palcoscenico e nella vita, porta addosso.
Dall’impossibilità di trovare un proprio posto nel mondo, alla difficoltà di avvertire l’essenza reale delle vite emozionali degli altri, l’
Opera Panica mostra memorie di vite altrimenti inesistenti, costruite
ad hoc solo per le apparenze. E' il ritratto di un circo in cui ogni artista è sempre un equilibrista, malgrado riesca ad indossare altre maschere e a fingersi altro. L'equilibrio è in una felicità soddisfacente che non riesce a raggiungere mai.
I vuoti d’anima diventano vasi da riempire con lacrime fin troppo salate quando la vita mostra che ogni parola, ogni intenzione, anche la più gentile, riesce a diventare esercizio puro di cattiveria. Calcolo matematico, ragione ostentata e chirurgica.
I gesti, i più semplici e diretti, forse quelli più vicini all’anima, si perdono in assurde divagazioni che rubano tempo all’azione, quando l'azione può voler dire felicità.
O semplicemente umanità.
Sempre
incompleto, sempre insoddisfatto l’uomo di Jodorowski è un clown ( intensissima e commovente Flavia Germana De Lipsis ) che muore nel buio senza luce di una vita-regia che misura la vita su domande assurde per cui nessuna risposta è giusta. E' un uomo-giocattolo che segue mille generali diversi nell'impossibilità di sapere dove sia la pace ( un disincantato Alfonso Germanò). Quest’uomo stretto in lacci rossi è un lanciatore di coltelli ( un meraviglioso Carlo Disint )che ferisce per compenso o che in uno schizofrenico dialogo con se stesso e la donna che ama ( o odia), nel passaggio sottile fra compassione e disprezzo, le toglie la vita.
Alla ricerca impossibile di qualcosa che forse non c'è.
Nel sottofondo, quasi avvertito in lontananza, la musica d’orchestra circense si confonde e poi si perde nelle parole quasi sussurrate di
Daniele Silvestri, per cui
si perdono i rumori…e si spengono le luci.