Questa volta il protagonista ci suggerisce di non complicare le cose…dormire o sognare, dormire o morire…forse è meglio semplicemente raccontarsi, raccontare inconsapevoli l’inabilità di vivere la propria autenticità, senza troppe congetture.
E così quello stesso disagio shakespeareiano dell’impossibilità lo ritroviamo nelle più intime pene quotidiane, e ci dicono semplicemente che siamo fragili. Ma sulla fragilità possiamo anche appoggiare il nostro sorriso, anche se il dolore punge inaspettato dietro agli occhi.
Una bellissima esperienza di “teatro sociale”, di persone speciali che ci regalano la tenerezza di essere guardati, mentre il nostro
guardare a tratti sprofonda nella nudità, nell’abisso dell’altro, e perciò si fa nervoso, spietato, umiliante.
Ma per fortuna ci sono le
favole…che confuse possono toglierci dallo schema, da una narrazione descrittiva dell’io. Così ci attirano nel vortice segreto dell’inaspettato, facendoci amare anche quei personaggi bui di un bosco notturno che è fatto di ombre e paure.
Aprire una porta, portare la propria valigia, sognare le cose possibili, ma anche quelle impossibili, questo è il teatro che ci emoziona, mentre il sogno è l’unica realtà che conosciamo interiormente.
Davvero molto “impegnati” gli attori di questa compagnia, ci hanno detto di amare le piccole cose e di amare, soprattutto con gli
occhi, le persone che incontriamo sul nostro cammino, senza pregiudizi, senza sospetti.
Davvero esauriente la regia, per una messa in scena dove il simbolo non è solo evocazione, ma necessità emotiva, e dove l’esistenza è un luogo sconosciuto…
Molto belle anche le musiche.
Il teatro di Roma ha scelto ancora una volta di sperimentare e sublimare, di restituire così, col teatro di “prossimità”, il teatro di “cintura”, la fiducia e la consapevolezza, la voglia e la forza di essere di frontiera.
di Chiara Merlo