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Il “profilo” della verità

Il “profilo” della verità

(22 aprile 2009) La Tipizzazione del DNA è una tecnica relativamente moderna che in ambito forense ha assunto un ruolo chiave nella risoluzione di molti casi giudiziari. Oggi questo strumento essenziale è utilizzato per individuare i colpevoli di eventi criminosi da parte degli inquirenti e le evidenze che ne scaturiscono sono largamente accettate nelle aule giudiziarie. E sempre più frequentemente la “prova del DNA” si rivela fondamentale nel determinare l’esito di un processo.
Le potenzialità dell’analisi del DNA in ambito forense in realtà furono subito chiare già dal 1986, anno in cui per la prima volta fu usata nella risoluzione di una complicatissima investigazione giudiziaria.

Nel 1983 nei pressi di Narborough, una piccola cittadina del Leicestershire nelle Midlands inglesi, venne rinvenuto il cadavere di una studentessa di 15 anni L.M. Il corpo della ragazza presentava evidenti segni di strangolamento nonchè di violenza sessuale. Il colpevole non fu trovato ma la polizia raccolse delle prove tra cui anche tracce di sperma dal cadavere. Circa tre anni dopo D.A., anch’essa studentessa quindicenne, scomparve da casa per poi essere ritrovata poco dopo strangolata e violentata nella stessa area dell’omicidio precedente. Anche in questo caso furono raccolte delle tracce di sperma dal cadavere della giovane studentessa.

Le modalità con cui le violenze e le uccisioni erano state perpetrate portarono la Polizia a ritenere che esse erano il frutto di un unico stupratore omicida.

La polizia incentrò i suoi sospetti su un giovane del posto, Richard Buckland, il quale era a conoscenza di dettagli sul ritrovamento del corpo di D.A. che non erano mai stati rivelati. Dopo diversi interrogatori il giovane confessò l’omicidio della seconda ragazza, rifiutando però ogni coinvolgimento nell’omicidio di tre anni prima.

Nella convinzione che il giovane fosse l’autore di entrambi i delitti, la Polizia si rivolse ad un ricercatore dell’Università di Leicester, Alec Jeffreys, il quale aveva appena sviluppato una tecnica per la creazione dei profili di DNA. Tramite questa tecnologia era possibile evidenziare quella piccolissima parte del genoma che differenzia un individuo da un altro (ad oggi sappiamo che questa corrisponde a circa lo 0,1% dell’intero genoma).

Jeffreys, in collaborazione con gli scienziati del Forensic Science Service inglese, confrontò i profili di DNA ottenuti dai campioni di sperma prelevati dalle scene del crimine e quello ottenuto da un campione di sangue prelevato dall’unico sospettato, e poco dopo consegnò alla Polizia i suoi risultati: le due violenze erano il risultato dell’opera di un unico uomo, ma questo uomo non era Richard Buckland!

Partì una gigantesca caccia all’uomo alla ricerca dell’uomo il cui profilo genetico corrispondesse a quello delle violenze. Fu chiesto a tutti gli individui maschi adulti della zona di fornire spontaneamente un campione del proprio sangue per effettuare un confronto. Ovviamente un rifiuto avrebbe attirato i sospetti della polizia e circa 5000 campioni di sangue furono campionati e analizzati. Tuttavia anche questo enorme sforzo fu vano e ancora una volta l’omicida non fu individuato.

Proprio quando tutte le speranze sembravano esaurirsi una testimone raccontò di aver udito in un pub un uomo che si vantava di aver fornito un campione di sangue al posto di un amico che gli aveva chiesto un favore. La polizia giunse quindi a Colin Pitchfork, giovane fornaio del paese. Il suo profilo risultò lo stesso di quelli ottenuti da entrambe le scene del crimine. Pitchfork confessò entrambi gli omicidi raccontandone i particolari più atroci. Nel 1988 fu condannato all’ergastolo per la violenza e l’omicidio di L.M. e D.A.

Il giovane Buckland e il fornaio Pitchfork furono quindi i primi due sospettati a sperimentare il potere accusatorio dell’uso del profilo del DNA in un aula di giustizia. Il primo vedendo dimostrata la sua innocenza e il secondo vedendo definitivamente provata la sua efferata colpevolezza.

Nel caso di Leicester per la prima volta le informazioni contenute nel DNA umano erano state utilizzate per identificare l’autore di un reato. Da allora la presenza di tracce biologiche rinvenute sui luoghi o sulle cose di pertinenza di un crimine possono essere utilizzati per identificare gli autori del reato stesso o le persone coinvolte.

Il DNA è presente in tutte le cellule di un uomo (ad eccezione dei globuli rossi che sono privi di nucleo) e di conseguenza è estraibile da molti materiali biologici. Sangue, liquido seminale, urina, muco ma anche ossa e tessuti sono fonti di DNA che possono essere utilizzate per ottenere un profilo genetico della persona che le ha lasciate ad esempio sulla scena di un crimine.

Oggi, come nel 1986, è necessario fare alcune considerazioni fondamentali per comprendere a pieno il valore dell’utilizzo della prova del DNA in ambito forense.

La prima considerazione da fare è che dal DNA estratto da una traccia biologica, e dal profilo che ne deriva, non è possibile avere informazioni di tipo predittivo sulle caratteristiche fisiche della persona che ha lasciato la traccia. L’unica informazione che si può estrapolare è infatti solo il sesso. Ne consegue che un profilo genetico ottenuto dalla scena di un crimine, o sull’arma di un delitto, può essere utilizzato per individuare il reo solo se si ha un pool di sospettati con cui effettuare il confronto.

Questo problema viene in parte risolto in molti paesi, ad eccezione dell’Italia, con l’istituzione di una banca dati di profili genetici delle persone più dedite a commettere reati.

Inoltre proprio in virtù della molteplicità delle fonti biologiche da cui è possibile estrarre un DNA, un qualsiasi luogo o ambiente sarà colmo delle tracce biologiche delle persone che normalmente e a vario titolo vi hanno accesso.

Di conseguenza trovare il DNA di una persona sulla scena di un crimine non può essere tout court indicativo di colpevolezza o di coinvolgimento con il crimine stesso.
Da tutto ciò deriva la necessità che il risultato ottenuto con l’analisi del DNA sia contestualizzato all’interno di un’attività investigativa di tipo classico volta a chiarire le dinamiche dello svolgimento dei fatti, nonchè le persone coinvolte e i rapporti tra queste.

Solo collocando nel tempo e nello spazio una traccia biologica, nonché il profilo genetico in essa contenuto, sarà infatti possibile comprendere a fondo il suo significato e il suo reale valore probatorio.
Ciò comunque non vuol dire che la “prova del DNA” debba sposarsi necessariamente con una tesi investigativa, anzi.

Il carattere tecnico-scientifico dell’analisi conferisce infatti al risultato un valore di certezza oggettiva che lo rende indipendente da qualsiasi linea investigativa. Esso non vuole né smentire né confermare un’ ipotesi, semplicemente mostra un aspetto della realtà attorno al quale si devono ricostruire i fatti.

I recenti casi di cronaca giudiziaria italiana, come il complicato caso della violenza della Caffarella, hanno evidenziato proprio come l’oggettività e la scientificità della “prova del DNA” sia un valore aggiunto molto spesso determinante per raggiungere la verità. Ci piace pensare che anche in questo caso italiano le potenzialità della “prova del DNA” si siano esplicitate come già avevano fatto nel caso di Colin Pitchfork, rendendo forse la giustizia un po’ più cosa di questo mondo.

di Stefano Vernarecci

22 aprile 2009
Articolo di
nostoi
Rubrica:
Scienza


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