Ma come dice Castellucci nella sua prefazione allo spettacolo, ristorante sta semplicemente per fame, seppure fame di arte e innovazione, la stessa che c’è ed è esorbitante nei due autori da lui e sopra citati, che proprio per quella loro fame di cambiamento si sono imposti per la rottura di percorsi artistici ormai fin troppo stanchi e abusati, quand'anche antagonisti. Ma questa fame, che attualmente qui da noi troppo spesso si sazia di immagini e simboli vintage, invece stantii, ripetuti e scontati, a un certo punto non farà che dilaniare proprio noi stessi, ma dopo un prolungato, esacerbante disfacimento e annullamento continuo.
É spesso il nulla a imporsi sui simboli, ormai logori e defraudati, e se non sono gli artisti a gettarsi nel fuoco della loro ispirazione, fra l’arte, la storia, e il cambiamento, nessuna evoluzione sarà possibile oltre quelli.
Perciò, per spiegare lo “sfascio progressivo dell’immagine” (in cambiamento/turbamento, stravolgimento/disperazione), questo annullarsi del rosso nel nero che inizialmente avviene per sfumature, poi per contrasto inutile (il rosso e il nero sono anche due colori fortemente ideologici, oltre che oppositivi), il regista usa per la sua scena, così dirompente, prima la notte, l’inverno, la stasi apparente, poi una luce accecante, compressa, e di disinganno. Ma non la notte eterna, soltanto il buco nero in cui si perde tutto il suo universo, e di cui possiamo sentire anche il più inquietante rumore sottostante (lo schianto dodecafonico registrato da un ricercatore del MIT e lì ancora conservato accuratamente per noi). Sottofondo di tempesta inaudita all’apertura di un dramma.
Dopo questo buio astrale, i colori bucolici di un tempo remoto, che non è ora, riprodotti in un ambiente ultraurbano (una palestra), con uccellini in sottofondo ma soltanto artefatti, e le lingue tagliate di donne divinità armate che non riescono più a parlare, perciò a esprimere il loro dolore, almeno non con la loro voce, se non coi gesti ornamenti di un quadro tardo romantico (mentre una radio trasmette il playback). La scena della mutilazione è terribile, lenta e lancinante. Poi passa un cane (vero) a mangiare quei pezzi di carne lasciati a terra come inutili tracce.
Forse che per la teoria del “multiversi” (teoria quantistica che sostiene la coesistenza di più universi contemporaneamente) quel buco nero debba essere semplicemente un passaggio obbligato? Un percorso oscuro ad un’altra luce? Un parto, dove proprio la morte deve essere la rinascita?
Uno dei quadri più belli messi in sequenza è proprio quello che mette insieme le donne vestite di vecchio che si raggrumano in un’unica mostruosità, ed è da quel cerchio, fatto di corpi consunti e di pezze, che si tirano fuori, stavolta nude, altre vite, per scivolare via fuori dalla tela. Fuori da quel buco sociale. Un buco nero, un sesso martoriato, una stagione appena morta. Un universo che non c’è più. Gli abiti vecchi poi restano in terra, emulano corpi morti, anime che non si è riusciti a trattenere. Donne però, non uomini. Macerano il tempo e così tentano un’ultima evoluzione possibile.
Scene anche per questo primitivistiche, matriarcali, che premono per ritornare all’uso originario del colore come dolore iniziatico. Denso, lo puoi toccare, proprio come suggerisce Rothko. Carnalità e Natura. L’ispirazione mitologica a questo punto è inevitabile. Il testo/libretto adottato (in due atti) è “La morte di Empedocle” di Friedrich Hölderlin.
Empedocle è il giovane filosofo agrigentino che secondo il mito si getta nel fuoco dell’Etna a causa di una pestilenza in cui gli uomini periscono e le donne soffrono nel partorire. È quello che, amato dagli dei, contrasta le oligarchie (fosse anche quelle culturali), capace di controllare le tempeste, il male, la vecchiaia.
Il senso: temendo di aver raggiunto un punto morto concettuale, trascendere i confini dei valori politici attuali. “Senza mostri e divinità l’arte non può emanare un dramma” dice Rothko. Così tutto deve sembrare estremamente apocalittico, ma con alternato il silenzio: la teoria degli elementi. Un cavallo, morto e gigante, fa da intermezzo fra il primo e l’atto successivo.
Nel terzo atto, dopo essere stati densi e pregnanti, luce e buio “risuonano” a intermittenza, tuoni e lampi allarmano il nostro senso comune. Allucinazioni terribili: cosmologiche, teologiche, mistiche.
Nell’ultimo quarto atto, veniamo immersi in una scatola trasparente dove ogni catastrofe sembra avvenuta, alluvioni, inondazioni, eruzioni terribili, terra e foglie in un mulinello inarrestabile, ma poi fanno sorgere sullo sfondo sempre più cupo un volto che ci sembra anche più sacro. Ancora una volta di donna. Una nuova immagine divina e femminile da consacrare. Una prostituta in realtà. La nuova Arte che è sorta (già morta).
Ma se l’arte è uno strumento di espressione emotiva e religiosa, riconoscibile solo quando ci si sente di più abbandonati, questo spettacolo riesce ad essere un concentrato di lacrime, voci, ed effetti speciali del mentre, dove la Natura è il Dio supremo e l’uomo semplicemente il suo Amore. Amore alla formazione o alla distruzione del tutto.
“Non mi lasciare”, piangono le parole, ma all’abbandono la morte, e alla morte un nuovo inizio.
(Visto per RomaEuropa Festival al Teatro Argentina)