È una generazione davvero facile da influenzare e controllare, perché non vuole pensieri, nulla che crei ed alimenti il minimo stato di stress, ridotta com’è, con una capacità di presa a carico al lumicino, se non del tutto assente. Incosciente del proprio ruolo ed incapace di prendere il proprio posto nei cerchi concentrici che rappresentano le relazioni, di ogni tipo, questa generazione usa demandare dove dovrebbe assumersi delle responsabilità ed osa invadere gli spazi altrui laddove le responsabilità non sono le proprie ed i ruoli sono differenti.
Quando agisce, lo fa acriticamente, senza provare ad immaginare le conseguenze di un gesto. Ogni azione è fine a se stessa, in un eterno presente in cui non è più capace di riconoscere gli errori di ieri nelle aberrazioni di oggi. Il punto però non è sapere chi appartiene a questa generazione, piuttosto capire quando si sta correndo il rischio di farne parte. Perché l’analfabetismo emotivo, che rappresenta non solo l’incapacità di emozionarsi di fronte alla realtà ma anche l’inettitudine a trasformare l’emozione in azione, a veicolare i sentimenti positivi e negativi in opere concrete e costruttive, colpisce in modi e momenti diversi. Vendere il proprio voto per 50 euro, non riuscire più ad indignarsi ad alta voce, giustificare ogni malefatta in nome di un’idea o un credo, sono chiare manifestazioni di analfabetismo emotivo.
Ogni volta che si cerca di sottrarre, spesso uscendo dal proprio ruolo ed anche con la violenza, i giovani dalle implicazioni che le normali prove della vita comportano (in ambito scolastico, relazionale, comportamentale) e viene impedito il naturale processo di crescita della persona (che altro scopo non ha se non quello di formare il carattere e le capacità di critica e giudizio), l’analfabetismo emotivo si trasmette di padre in figlio e si creano nuove generazioni sempre meno capaci di uscire dallo stesso coma farmacologico in cui chi li precede viene tenuto.
È come nella metafora del videogioco. Provi, riprovi e riprovi ancora, puoi vincere o perdere senza che l'una o l'altra cosa causino turbamento. C'è sempre un'altra vita ancora da giocarsi. Sconfitta senza conseguenze, vittoria senza utilità. Nella realtà non c’è un’altra possibilità dopo il game over, il percorso da compiere bisogna saperlo scegliere prima, e serve avere un carattere formato a reggere il peso degli errori o la responsabilità del successo, o il primo alibi che passa sarà lo sfogo delle peggiori frustrazioni.