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Il mito della felicità a portata di boccetta

Il mito della felicità a portata di boccetta

(24 settembre 2008) A 20 anni dalla loro scoperta, dopo che milioni di persone hanno delegato sensazioni ed emozioni alla loro efficacia, una ricerca inglese mostra i limiti dei farmaci anti-depressivi e apre alla riflessione sulla definizione della normalita' dell'essere e del sentire.
Non che il sospetto non fosse gia’ nell’aria ma sicuramente vedere scritto nero su bianco che gli antidepressivi non hanno effetti se non nei casi di depressione clinicamente gravi ha gettato nello sconforto (di piu?) almeno una parte dei 40 milioni di persone che nel mondo hanno fatto uso di farmaci come il Prozac negli ultimi 20 anni.

Lo sconcerto origina da una ricerca pubblicata dal Prof Irving Kirsch del Dipartimento di Psicologia dell’Universita’ di Hull, UK. In questa ricerca sono stati presi in esame dati di sperimentazioni cliniche presentati al Food and Drug Administration (FDA), organismo federale statunitense per il controllo di alimenti e farmaci. I risultati mostrano che la differenza tra i pazienti depressi trattati con farmaci come Prozac o Serotax, e quelli trattati solo con il placebo e’ minima e scientificamente non significativa. In pratica, gli antidepressivi non sembrano funzionare in tutti i casi, ma solo nei casi di depressione grave.

E naturalmente la reazione e’ stata immediata.
Soprattutto in un paese come gli Stati Uniti dove il Prozac e’ cosi’ diffuso e cosi’ “naturalmente” accettato che ne e’ persino stata lanciata da poco sul mercato una versione canina, per i cani con l’ansia da abbandono che abbaiano, smangiucchiano oggetti e sporcano la casa quando vengono lasciati soli!
E soprattutto coglie impreparati tutti quelli che aspettavano l’arrivo dell’epidemia depressiva globale annunciata dall’Organizzazione Mondiale della Sanita’ (World Health Organization), secondo cui nel 2020 la depressione sara’ la seconda causa di inabilita’ dopo le malattie cardiache.

E fa nascere un interrogativo interessante, ben inquadrato dal Dott Giovanni Frazzetto nel numero di Agosto di EMBO reports.
Non e’ che quello che cerchiamo di curare come malattia, associata ad un sentimento di sfiducia, difficolta’ nelle proprie possibilita’, perdita di speranza, energia, ottimismo nel gestire situazioni e momenti problematici, e’ in realta’ un desiderio di “curare” un comportamento che consideriamo non adeguato o indesiderabile e cioe’ l’incapacita’ di essere le persone assertive e produttive che la societa’ vorrebbe che noi fossimo?
Non e‘ che il proliferare di tutta una serie di disturbi/malattie mentali come la sindrome da deficit dell’attenzione e iperattivita’, anche queste trattate con farmaci persino nei bambini in eta’ scolare, deriva da una nostra intolleranza verso atteggiamenti che una societa’ “vincente” non puo’ piu’ permettersi?
Sta di fatto che il numero di malattie mentali descritte e diagnosticabili secondo il Manuale di Diagnostica e Statistica dell’Associazione Americana di Psichiatria e’ aumentato dal ‘52 ad oggi di ben quattro volte, un incremento che non puo’ assolutamente essere dovuto a cambiamenti della biologiadel cervello umano.

Siamo semplicemente piu’ sensibili e piu’ a conoscenza delle miriadi di sfaccettature dell’esistenza umana. E non le accettiamo piu’, perche’ siamo terrorizzati dalla non convenzionalita'.
E la diagnosi del disagio mentale, che in questi casi non puo’ essere supportata da test delle urine, prelievi del sangue o scansioni del cervello, e’ lasciata alla scienza dei questionari, all’interpretazione di “sintomi” che hanno le sfumature del grigio in un mondo che e’ sempre piu’ in bianco e nero.
Il tutto a vantaggio dell’industria del farmaco che cresce e si sviluppa in concomitanza con il diffondersi dell’"idea" della malattia, in un rapporto simbiontico che si nutre delle nostre insicurezze e delle nostre inadeguatezze.

di Paola Merlo


24 settembre 2008
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