Si fa nero e diventa un’ala. Un’ombra nera che danza al centro di un palcoscenico illuminato. E’ il cigno nero. E questa è la storia di una metamorfosi verso l’abisso. Darren Aronofsky si misura con un soggetto cinematografico che non smette di perdere il suo fascino: l’anima e il suo doppio. Da Dottor Jekill e Mister Hyde passando per l’inarrivabile Bates di Hitchcock fino al dissonante Nascosto nel buio di Robert De Niro il doppio non smette di sibilare il suo scioccante e sempre diverso senso alienante.
Si supera Aronofsky nel suo Il cigno nero collezionando riconoscimenti dorati: già premiato a Venezia col Leone d’Oro nel 2008 per erotico e malato con la rivale di palcoscenico Lily, interpretata dalla splendida Mila Kunis. Corpo e anima come paradiso o dannazione. È il coreografo Thomas Leroy ( faccia e sensualità di Vincent Cassel ) a riscrive l’opera di Čajkovskij affidando a Nina la parte di Odette. La luce vera si disperde nella fredda luce del palco e diventa un ricordo sulla linea del piumaggio tagliente dello spietato cigno nero. Un’ombra che ingoia ogni cosa. Si perdono nell’aria le lacrime diamantine del cigno bianco sulle note delle splendide musiche di Čajkovskij.
Il cigno vola ferito dalla rupe e cede la vita ad un destino troppo doloroso per essere accettato. Un fiore vermiglio si apre nel candore stellare nel suo piumaggio. Si ferma il tempo, il volo si infrange. Si ferma il cuore: il cigno bianco muore di quello che muoiono gli innamorati: di troppo amore. Di troppo dolore inespresso, trattenuto.
È proprio come un pezzo di vetro conficcato del ventre il dolore per la riscrittura di un’anima. Si avverte senza stacchi ma di un moto continuo e inarrestabile il passaggio di quest’anima troppo pulita al suo doppio crudele e volitivo. Un doppio schizofrenico e malvagio che soffre degli stati di coscienza, quando s’accorge di essere divenuta strumento di odio. Un esercizio di perfezione questa danse macabre verso la fine inevitabile.
Ma la fine non è salvifica per ciò che era puro. Si salva l’odio che come sempre produce morte. La scia dell’evoluzione al nero si avverte nell’autolesionismo di Nina, impeccabile e grandiosa Natalie Portman nell’ambivalenza espressiva e cognitiva pesantissima del suo personaggio. E’ una parabola motivazionale del successo a tutti i costi, del controllo della forma, dell’estetica, dell’impossibilità di vivere nell’ombra, malgrado un’anima lucente. Del bisogno distorto di cucirsi un bustino d’odio addosso, un cilicio cinico e pungente pur di risplendere nel cono di luce del palcoscenico. Un saggio di bellezza paranoide e crudele. La vita è lì. Nascosta nell’ombra che danza nell’aria senza fare rumore.
Locandina del film