Viene annunciato in questo modo il disegno di legge costituzionale sulla libertà di impresa, e presentata così la nuova ricetta per lo sviluppo del nostro paese. Ma c’è una semplificazione subdola in questo ragionamento consegnato ai giornali. “È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato”? È questa una cornice normativa oppure concettuale del nostro prossimo futuro (davvero auspicabile?) sistema economico socio-politico? E cosa si intende propriamente per “declinismo”? Da troppo tempo abbiamo conservato come retaggio culturale (mentalità grossolanamente provinciale!) che l’imprenditore sia quello che, per tutti, “ha semplicemente saputo fare i soldi”. Magari con due, tremila case costruite in riva al mare (e che cosa conta se abusive o abusanti), i viaggi della spazzatura (prima di qua e poi di là), le pizzerie a catena nei centri storici (tutte con gli stessi odori e gli stessi sapori)...le automobili italiane (mai vendute in Italia eppure di marchio e fattura nostrana!). La moda: due sartine che sfruttano la manodopera del terzo mondo... Poi ci sono le televisioni, non dimentichiamocele, che hanno scardinato il monopolio della comunicazione e dei media e hanno dato lavoro a migliaia di persone capaci e di talento... Ma usciamo fuori da questo stile sboccatamente provocatorio. Se solo avessimo letto con più attenzione la nostra Carta Costituzionale, per definire l’attività di impresa avremmo di certo preferito declinazioni migliori, e sia per ciò che riguarda il concetto di “iniziativa”, sia per il concetto di “economica” che per quello di “privata”, ma soprattutto per quello di “libera”. L’art. 41 in effetti (almeno ad ora) sottolinea principi assai più funzionali di quelli suggeriti con assai dubbie parole strumentali: «L'iniziativa economica privata è [si] libera. [ma…] Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. [In più…] La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». L’iniziativa privata ex art. 41 (scansando subito questo equivoco) non può in alcun modo perciò essere confusa con volgari torbide attività speculative, seppure riconosciute da tutti come ben riuscite e remuneratorie; queste ultime producono soltanto arricchimenti senza giusta causa (ma poi andiamo a vedere a scapito di chi!). L’attività economica, anche quella privata, deve avere i suoi fini sociali. Senza considerare poi che nella Costituzione ci sono tutti quegli altri articoli ai quali, sempre l’art. 41, deve in qualche modo pure coordinarsi! Il nostro ordinamento economico è stato pensato perciò come corrispondente a quei principi costituzionali ancora vigenti (e davvero ormai così obsoleti che bisogna cambiarli?!), e perché ci si orienti verso un assetto strategico socio-politico e delle finanze di tipo “tutorio”, seppure nel riconoscimento dell’iniziativa privata (che è libera). Ciò vuol dire, banalmente, che a fronte della libertà di impresa di ciascun imprenditore ci sono quei fini sociali contenuti nella Legge Fondante, e per essere pratici: le tasse che servono appunto per garantirli, così la corretta gestione delle risorse, del lavoro, la concorrenza leale del mercato a ottenere il miglior prodotto, e dei discreti risultati visibili, e dei meccanismi di gestione pubblica, e anche privata, a vantaggio di tutti, e con il miglior profitto per chi investe, e il minor costo per la società. Perché è alla società che gli investimenti devono essere rivolti, anche per la più banale legge economica. Ma cosa voglia dire “tutorio” più approfonditamente non è così facile spiegarlo, dovremmo già riuscire a isolare, consapevolmente, ideologie(e ideologismi) usati spesso come comodi suoi presupposti. Possiamo tuttavia recuperare, se pure con un po’ di fatica, almeno uno dei tentativi di chiarezza. Cioè almeno una basilare differenza, seppure concettuale e teorica. In un sistema politico che voglia essere contemporaneamente liberale e democratico bisogna innanzitutto sempre tenere conto di quel contrasto “necessario” (ineliminabile) che c’è tra la classe dirigente e tutto il resto della popolazione. E in questa contrapposizione, davvero sempre fisiologica, ci sono almeno due alternative economiche per mantenere un sistema democratico e allo stesso tempo (non fintamente) liberale: quella dello scambio volontario e quella della socio-politica. «La prima – come dice più esaustivamente Giuseppe Curreri dell’Università di Catania, Facoltà di Economia, Dipartimento di Economia e Metodi Quantitativi - è fondata sulla libertà individuale di ciascun soggetto all’interno della società. In questa ipotesi, si immagina che i contribuenti paghino le tasse allo scopo di ottenere l’accesso ai servizi pubblici, così che le imposte possono essere considerate come i prezzi pagati per i beni pubblici prodotti dallo Stato […]». La seconda, cioè l’approccio socio-politico, «propone un modo completamente differente di studiare l’azione del governo. […] Il punto di partenza […] è che […], all’interno della società, possono essere individuate due categorie generali, quella dei governanti e quella dei governati; il potere è esercitato dai gruppi dominanti che tentano di agire secondo la loro volontà e tendono a non tener conto del volere della società. Le differenze sorgono dal diverso apprezzamento di questo processo, anzi del modo in cui effettivamente avviene, in particolare con riferimento alla relazione tra i due gruppi principali. […] In questa visione lo Stato è capace di imporre in qualche modo la sua volontà al resto della società […]. Più recentemente, la definizione delle teorie socio-politiche sembra essere diventata più sfumata. L’accento non è più necessariamente sulla capacità della classe dirigente di trarre vantaggio dalla massa, ma sull’equilibrio che si viene a creare tra i loro obiettivi incompatibili. Ne consegue che è necessario tenere conto del ruolo giocato dall’elettorato che non può più essere del tutto ignorato». In sostanza, seguendo quest’ultimo orientamento, invece di lasciare che il processo economico si avvii “spontaneamente”, secondo lo scambio volontario che segue le regole del mercato (sia per il pubblico che per il privato), è lo Stato che ha un suo ruolo specifico di management, assumendo, attraverso l’elettorato, il suo compito tutorio (come delle deleghe, poi affidate al Governo, perché vengano fatte delle scelte economiche "mediate" più valide e allo stesso tempo più opportune per tutti). Così, chi governa sta bene attento quando si sostituisce (in assetto tutorio) ai desideri dei cittadini, e alle attività utilitaristiche degli imprenditori, per non rovinare quell’equilibrio trovato fra interessi contrapposti e che deciderà dell’azione del Governo sempre e solo a fini elettorali e di mantenimento dello status quo. Se quello che abbiamo appena riportato risulta più o meno comprensibile, in un assetto che voglia essere tutorio (e nel quale l’élite può essere paragonata a un padre che prende decisioni per conto dei figli mirando al loro bene), con le implicazioni naturalmente di cui abbiamo già detto, lo Stato si affianca ai singoli cittadini nelle decisioni economiche, e nel “guidarli” rispetto a qualsiasi loro scelta di libertà economica e iniziativa privata, indicando loro, in pratica, quali principi (o fini sociali) la società (attraverso le elezioni, scegliendo quindi i suoi migliori rappresentanti) ha saputo valorizzare in un contesto socio-politico inizialmente conflittuale tra popolazione e classe dirigente dominante, ma finalmente rivolto, attraverso i rappresentanti, al compromesso ottenuto attraverso il maggior (maggioritario) consenso raggiunto. Secondo però gli schemi della Public Choice, una teoria economica elaborata negli Stati Uniti negli anni sessanta, e sviluppata negli anni settanta principalmente ad opera di James M. Buchanan (che nel 1986 per questi studi vinse il premio Nobel per l'economia), questa teoria, detta teoria delle scelte pubbliche e che si differenzia dall'approccio della maggior parte delle Scienze Sociali classiche, non studia come la politica dovrebbe funzionare o si spererebbe funzionasse (analisi normativa) rispetto all’economia, piuttosto come realmente, effettivamente funziona (analisi positiva). Ecco perché il nostro Premier dice a noi tutti, e agli imprenditori in particolare, che possiamo continuare a oliare il sistema economico così come abbiamo fatto esattamente fino ad ora (a volte perseguendo consuetudini anche al confine con l’illecito) e facendo comunque circolare la “liquidità” (e così anche il denaro sporco), magari anche a scapito dei lavoratori, della ricerca, e della crescita effettiva (anche culturale!). Il Premier dice: rispetto alla crisi globale “gli italiani restano ricchi”. È per questo che la politica di rilancio deve continuare a seguire quest’andamento, lasciarli ricchi, mantenerli ricchi, anche a scapito di tutti gli altri, semplificando (banalizzando) se possibile anche i principi costituzionali, o ribaltandone semplicemente l'interpretazione. Così risolvere anche le relazioni conflittuali tra politici e contribuenti. Se non fosse che un altro economista, Cosciani, ha identificato altri due assetti possibili oltre a quello tutorio, di stampo opposto. Quello “predatorio” e quello “parassitario”. «In entrambi i casi la classe dirigente non agisce più in base a sentimenti altruistici, ma egoisticamente; nel primo caso l’obiettivo è di distruggere la parte debole della società allo scopo di entrare in possesso della sua parte di ricchezza, nel secondo non c’è eliminazione per potere continuare a sfruttare la massa e quindi massimizzare la ricchezza complessivamente prelevata».
di Chiara Merlo