Immagina se tua figlia, tua sorella, la tua amica più cara, finisse nell’Isis. Così, da un giorno all’altro, senza che tu ti sia reso conto di nulla. Eppure era una ragazza tranquilla. E’ possibile, succede, è successo. Si parla infatti di decine di donne finite a vivere nel califfato islamico; pare che provengano prevalentemente da Francia, Regno Unito, Austria, Belgio e Spagna e che la loro età si attesti tra i diciotto e i venticinque anni.
(Mi domando, per inciso, se e cosa ci sia di sostanzialmente diverso dalle adesioni nelle variopinte brigate degli anni di piombo da parte di figli della buona borghesia italiana ed europea. Ma questo è occasione di ulteriore dibattito).
In Tu es libre, spettacolo in scena al Teatro i di Milano dov’è in programma fino al 6 dicembre (seconda ripresa dopo il successo nella precedente stagione), la questione ruota intorno alla scelta eversiva di una giovane donna francese e le domande nascono in quello spazio fisico, concreto, quotidiano che c’è tra lei e la sua decisione di partire per la Siria e aderire a un sistema socio-culturale totalmente diverso da quello in cui è nata e cresciuta.
Una scelta che sfugge a tutte le determinazioni, stereotipi, attenuanti, giustificazioni e che nessuno dei suoi familiari e amici riesce a spiegarsi. Nonostante tutti ci provino tra dubbi, sospetti, veniali menzogne raccontate prima di tutto a se stessi, ipotesi non esenti da sensi colpa.
In questo consiste il testo scritto da Francesca Garolla, anche in scena in veste di se stessa: autrice intessuta nella trama che cerca tra le diverse testimonianze un bandolo in grado di suggerire e orientare, per trovare un senso alla scelta di Haner (tale è il nome della protagonista) e alle domande che ne derivano.
Cosa succede nella mente di un donna che non è: immigrata, emarginata, ignorante, pazza, malata, manipolata. Che ha una solida famiglia alle spalle, uno spasimante e un’amica del cuore.
Cosa la porta a scegliere la guerra - non solo il combattimento in atto ma uno stato di guerra, di rischio, di esposizione totale - partendo da una pacifica e incolpevole condizione di vita?
E’ umana la guerra come umane sono tutte le condizioni messe in atto dall’uomo, oppure è disumana perché ne mette a repentaglio vita e incolumità?
Ecco, questa è un’ulteriore questione a cui si risponde. Perché se alle altre domande non c’è risposta esaustiva, c’è invece a questa e non è quella verso cui ci piacerebbe propendere.
Haner potrebbe avere ucciso, buttato bombe, potrebbe anche farsi esplodere in un luogo pubblico. Potrebbe, perché il testo non ce lo dice con certezza. Non lo esclude e non lo rivela. Il ‘processo’ indiziario a cui sono chiamati i personaggi/congiunti non ha nulla di chiuso e definitivo e quindi non prevede nemmeno possibilità di catarsi.Tutto è aperto e quindi tutto è possibile, potenzialmente vero, potenzialmente ‘altro’ da ogni pseudo-verità a cui ci eravamo avvicinati, vanificando a priori anche la più debole tentazione al giudizio. Per questo alla fine ci sentiamo gettati di nuovo in una dimensione di interrogazione assoluta, che è spaesamento totale o accoglienza a prescindere.
La morte è inscritta all’interno di una scelta libera che è la guerra. E la guerra è una possibilità anche per una giovane donna in tempi di pace. Il che significa che la vita non è un valore da difendere a oltranza.
La scelta di Haner scardina radicalmente il rassicurante sistema di valori su cui si fonda la nostra civiltà: valori che non vengono infranti o sospesi ma negati tout court.
La domanda che resta è se vengono sostituiti e ribaltati da un sistema alternativo o rinnegati in quanto tali da una hybris autopoietica, una sorta di ‘idea’ che si afferma negando, ogni volta diversa.
C’è un rigore, nella scelta di Haner o c’è un’indomita pulsione che non trova forma? La Siria racchiude una ragion d’essere o è solo il primo approdo, uno sfogo, una delle manifestazioni possibili in cui si attua la sua libertà?
“Me ne vado perché cerco qualcosa in cui mettere tutta la libertà che ho”. Questo dirà Haner prima di partire, in un momento che volge alla fine. Indirizzando la risposta, certamente, ma lasciando lo spettatore in una sorta di limbo, a interrogarsi sempre e di nuovo.
D’altra parte la presenza stessa dell’autrice in scena è segno che qualcosa può ancora accadere, anzi tutto è potenzialmente in discussione e lei è lì non solo per testimoniare ma per raccogliere il filo di un discorso che ha radici anche molto lontane e che nulla esclude non possa essere riaperto.
C’è qualcosa di archetipico in questa figura, ma anche nelle altre intimamente connesse, un carico antico che affonda nella figura di Andromaca, a cui la protagonista si riferisce nel nome.
‘Andromaca’ cioè colei che combatte gli uomini, viene assunto dall’autrice per raccontare, a partire dal nome, la carica di violenza che si può nascondere in un corpo di donna.
E la giovane attrice Maria Caggianelli Villani, dall’apparenza fragile e delicata risponde con un peso scenico più che consono al ruolo.
La scrittura scenica di Martinelli procede secondo uno schematismo di gesti e movimenti che sulla scena ricreano spazi e situazioni, senza nessun supporto di arredo. Si tratta di restituire attraverso lo stato d’animo e le parole di ciascun personaggio chiamato a testimoniare, ricordare, confrontarsi, un mosaico di verità parziali, soggettive e comunque solo indiziarie che si riveleranno inutili. Fonte di ulteriore sofferenza e niente affatto funzionali a comprendere un mistero, perché di questo si tratta, che li riguarda tutti così da vicino.
Con la presenza di madre e padre (nei ruoli Viola Graziosi e Paolo Lorimer, perfetti) il testo e lo spettacolo tutto si innerva di un dolore lancinante che non vede tregua. Né si placa in quello sforzo (isterico) di rimozione che porta la madre a rinnegare lo spazio fisico (e quindi emotivo) di Aner dopo il velo. “La sua stanza è Aner prima del velo: l’unica che voglio”.
Era cominciato con un pianto di madre composto e borghese, quasi una citazione, in una sala d’attesa reinventata sul fondale e si chiude con il suo stesso pianto lieve, delicato, sincero, immortalato in un’ immagine d’insieme. Nel mezzo una pietà pudica piena di sofferenza, senza rassegnazione.
Nel ruolo del fidanzato Alberto Malanchino che si interroga e ci interroga su che cosa venga prima nel rapporto tra morte e futuro. Nella parte dell’amica Liliana Benini.
Tu es libre è testo finalista al Premio Riccione per il Teatro 2017 e selezionato dalla Comédie-Française tra le novità più significative della stagione 17/18.
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