E sapremo subito che ci troviamo sulla spiaggia di Bagnara Calabra. Non so immaginare se fosse davvero questo il suo paradiso, ma certamente è una trovata che strappa il primo sorriso. Se mai ci fossimo sintonizzati su corde leggiadre, era uno scherzo. Della Giglio, sicuramente, con il bene placito non senza tormenti di Daniele Salvo, alla regia.
In un’ora e venti di spettacolo Mimì si rivela man mano, condividendo ricordi che già conosciamo ed esperienze più dolorose e riposte, che chiedono tempo e fiducia. Il fibroma all’utero, i quattro mesi di carcere per un po’ di canapa indiana, o fosse pure di coca, di quella che nei salotti hai voglia e lei invece l’hanno sbattuta in galera; l’incidente in macchina, precipitata in un burrone, che qui diventa metafora della sua vita, fatta di gioie e dolori, alte vette e precipizi in cui decidere di abbandonare, anche solo per un momento, tutto il dolore che ti mangia l’anima. E poi i polipi alle corde vocali, il tradimento più grande, che si accanisce dopo un tradimento d’amore. La vendetta del corpo contro l’anima offesa. E l’infanzia, non proprio dorata, che prende vita in quella casetta in miniatura, adagiata sul proscenio, che evoca innocenti giochi infantili e atmosfere familiari serene. Un inganno, come la casa nel bosco di Hansel e Gretel, che racconta ancora una volta che la vita è così. Dentro, la sua mamma bellissima, musicista relegata al ruolo di moglie e di madre e il padre padrone, sul quale vola e sorvola, ormai senza peso.
Mimì è tornata senza rancore, in pace, quasi felice di tentare con grazia la purezza degli angeli. Anche se Melania una mano a sistemare due cose gliela vuol dare. E qualche colpo lo assesta. Si affacciano anche i cattivi, in questo paradiso di gente perbene. Quelli che le hanno sbarrato la strada, chiuso le porte. I calunniatori, maldicenti, pettegoli, ‘rosiconi’ che non c’è parola più vera e perfetta: sopravvissuti a se stessi, zombie rauchi e ridicoli. Tornano come incubi e non hanno un nome. Ma poi basta svegliarsi e ti accorgi di nuovo che la vita è così. Per aspera ad astra. Ci sono gli angeli e i diavoli. Ma non fanno più nemmeno paura, anche se ancora ci provano a fare bau bau.
Invece lei è lì, più viva che mai, fascinosa e bellissima. E poi quella voce: la sua. Perché Non finisce mica il cielo se manchi tu, Piccolo uomo, e Minuetto, La nevicata del ’56, La donna cannone, La costruzione di un amore. Mimì canta le sue canzoni più belle e con lei gli angeli, complici, sempre più vivi, sempre meno impalpabili.
Sono Mamo Adonà, raro come un miracolo, voce di soprano in corpo di uomo, che ci ha preso per mano con l’aria di Handel, Lascia ch’io pianga mia cruda sorte e Sebastian Morosini, attore e danzatore capace di movenze intriganti, ambigue, più che mai opportune.
Un lavoro di cuore, che suggerisco a chiunque abbia amato Mimì. E non solo.
("Mimì in arte Mia Martini", di e con Melania Giglio, con Mamo Adonà e Sebastian Morosini, regia Daniele Salvo, Scene Fabiana Di Marco, Costumi Daniele Gelsi, Luci e video David Barittoni).
Visto al Teatro Off Off di Roma
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