Se devo raccontare delle Miti Pretese mi viene in soccorso la figura del cerchio, dove ogni punto è equidistante dal centro, ma al centro si guarda e si tende come un obiettivo comune, approfondendo man mano, verificando e correggendo se il caso, unite nella volontà di rischiare, sperimentare, scommettere.
Però se domandi a Manuela Mandracchia, Alvia Reale, Sandra Toffolatti e Mariàngeles Torres qual è il loro metodo ti rispondono più d’accordo che mai ‘vorremmo saperlo anche noi’.
Quello che è fuori discussione è una professionalità senza riserve che permette loro di affrontare figure tragiche e borghesi, epiche e liriche, di ieri e di oggi con la stessa perizia e, se occorre, una generosa disposizione mimetica. Forse meriterebbero ancora più fiducia dai centri di produzione, anche quelli poco inclini a rischiare. Dopotutto in scena ci sono solo un po’ di sedie, due o tre panche, qualche lenzuolo che se lo sai usare come si deve fa da sipario, da fondale, da separé, una macchina per scrivere (vabbé una ciascuno ma ormai già ce l’hanno), una fisarmonica, un po’ di vestiti e tessuti colorati, una toeletta per il trucco, un tappeto andato e un divano di più. Il tutto distribuito in ben tre spettacoli. Non molto altro. A parte una squadra di cavalli di razza con cui si va sul sicuro.
Le incontro al Teatro Vascello di Roma dov’è in corso, dal 23 aprile al 6 maggio 2018, una retrospettiva dedicata costituita da Roma ore 11, lo spettacolo tratto dalla sceneggiatura di Elio Petri confluita nell’omonimo film, Troiane, Variazioni sul mito, ovvero la tragedia di quattro donne riscritta guardando a Ecuba, Cassandra, Elena e Andromaca e Festa di famiglia, una drammaturgia tratta da Luigi Pirandello e realizzata con la collaborazione di Andrea Camilleri che innesta motivi e frammenti pirandelliani autografi in un canovaccio originale.
In scena fino a domenica 6 maggio, vede coinvolti anche Fabio Cocifoglia e Diego Ribon.
Cominciamo di qua. Come nasce questo spettacolo e perché Pirandello?
Volevamo raccontare di violenza in famiglia, soprattutto rivolta alle donne, ma dopo avere letto tutto il leggibile ci mancava un filtro poetico, un autore che ci permettesse di andare oltre la cronaca. L’illuminazione è arrivata con Pirandello che i rapporti malati, violenti, i meccanismi di prevaricazione e sottomissione, li ha trattati in quasi tutti i suoi scritti. Le scene tra Mommina e Rico Verri di Questa sera si recita a soggetto, in particolare, sono da manuale in questo senso. Ma anche i Sei personaggi, Trovarsi, L’amica delle mogli, L’uomo la bestia e la virtù, L’innesto, Enrico IV.
Chi conosce Pirandello lo ritroverà nei frammenti e nei personaggi, chi non lo conosce o lo conosce solo in parte assisterà comunque a una storia di violenza che si consuma in famiglia.
In cosa è consistito l’apporto di Andrea Camilleri?
Camilleri è stato nostro insegnante in Accademia ed è stato naturale rivolgerci a lui, anche perché è siciliano. Ha detto subito ‘ci sto ma solo se lavoriamo insieme’. Drammaturgicamente ci ha dato un suggerimento di montaggio che ci è parso molto giusto: il nostro spettacolo terminava con scene di violenza. Lui ci ha consigliato di partire con le scene di violenza in modo che a un terzo dello spettacolo il nucleo del racconto fosse già dispiegato e si potesse virare verso un’altra atmosfera.
In questo spettacolo è stata fondamentale la presenza di due uomini in una squadra tutta al femminile. E’ un caso o una scelta che le Miti Pretese siano donne?
Non è secondario (che significa che se non è proprio una scelta non è nemmeno un puro caso ndr). Il gruppo si è formato per contagio, come per trasmissione di un virus. All’inizio eravamo di più, poi c’è stata una specie di selezione naturale e siamo sopravvissute noi quattro. Abbiamo passato i primi mesi a cercare testi che raccontassero le donne e l’universo femminile in modo nuovo, non solo in funzione di quello maschile, come mogli, madri, amanti. Ma non volevamo nemmeno raccontare di un femminile malato, deviato, fatto di donne sole, psicopatiche, di assassine e nuove Medee. Non è stato facile. Eppure di donne importanti ce ne sono state, ma mancano testi dedicati.
Finché non è arrivato Roma ore 11. ‘Dattilografa cercasi per primo impiego miti pretese’. Il vostro manifesto e atto fondativo.
Roma ore 11 è un film di Elio Petri del ’52 basato su un fatto di cronaca avvenuto l’anno prima che lo stesso Petri documentò per L’Unità. Il crollo di una scala dello stabile in cui si tenevano i colloqui per un posto di segretaria, uno solo, che costò la vita a una ragazza e il ferimento di settantasette. Il nostro lavoro non è partito dal film ma dall’inchiesta di Petri, che racconta queste donne senza giudizio, mettendo in luce pregi e difetti ma con sguardo fraterno.
Noi abbiamo creato una drammaturgia scegliendo una decina di figure tra le tante presenti nell’inchiesta - mamme, nonne, bambine, portiere e portieri, vicini di casa-, attraversando, giocando, il genere e l’età.
Se non sbaglio tutto è cominciato in una falegnameria del ghetto.
Una falegnameria dismessa, un posto in cui le pareti parlavano da sole. Non avevamo niente, nemmeno il videoproiettore. Abbiamo appeso due lenzuola e siamo partite. Poi molti amici ci hanno creduto. Piero Maccarinelli, Paola Macchi, Ascanio Celestini, Debora Pietrobono, Barbara Valmorin. E Mariangela Melato che ci ha seguito finché le è stato possibile.
E poi?
Poi i teatri si sono messi in coda.
(Io non colgo l’ironia e loro subito rettificano). Come attrici riceviamo attestati di affetto e di stima ma come gruppo c’è una diffidenza che dura tuttora e a livello istituzionale continuano a chiederci se non ci sia un regista di riferimento. Evidentemente la sinergia tra donne e la regia collettiva non rassicura. La verità è che la nostra purtroppo è ancora una società maschilista e verticistica che ha bisogno di un leader. D’altra parte, però, ci sono tanti nostri colleghi che non se lo spiegano e se adesso siamo qui è anche perché molti di loro ci esortano a resistere.
A proposito di Troiane ringraziate espressamente Luigi Saravo.
Ci ha aiutate a costruire la drammaturgia modulata sulle quattro figure femminili di Ecuba, Cassandra, Elena e Andromaca, attinta non solo a Euripide ma a Seneca, Omero, Licofrone, Orazio, Sartre.
E avevamo bisogno di uno sguardo esterno che ci sostenesse. Troiane è lo spettacolo che ci dà ancora filo da torcere perché è nato per uno spazio aperto, il Teatro Greco di Tindari, e solo in un secondo momento lo abbiamo ripreso nei teatri al chiuso. Ma la differenza non è solo spaziale: riguarda la recitazione stessa che deve essere più contenuta. Ecuba che urla al cielo stellato, per esempio, in uno spazio chiuso diventa altra cosa.
Anche qui avete elaborato una drammaturgia originale che porta allo scoperto relazioni degenerate tra donne appartenenti alla stessa famiglia, in modo diretto o indiretto.
Abbiamo voluto raccontare la fine della guerra di Troia solo attraverso le donne, ormai ridotte a bottino di guerra. Vittime tutte di un gioco più grande di loro e contemporaneamente carnefici l’una dell’altra.
La difficoltà maggiore è stata mantenerci in equilibrio tra mito e prossimità, trovare corde tragiche e tuttavia contemporanee per farle parlare al mondo, adesso. Per questo nella recitazione abbiamo cercato un distacco che crediamo aiuti la comprensione. Sono donne che piangono poco, urlano poco, ma perché hanno già versato tutte le lacrime.
Forse più che la guerra di Troia raccontata attraverso le donne avete raccontato le donne nella follia della guerra. Quali sono i prossimi progetti?
Rifletteremo sul fenomeno delle migrazioni delle donne nelle nostre famiglie. Madri che lasciano i figli per badare ai nostri bambini o figlie che lasciano i vecchi genitori per venire in Italia a lavorare come badanti. Il testo sarà scritto da Lucia Calamaro e debutterà a Brescia, il prossimo autunno.
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