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Non volevo mi si perdesse dentro. L'amore.

Non volevo mi si perdesse dentro. L'amore.
di Chiara Merlo

Il rosso è la cura definitiva
per la tristezza.

(Bill Blass)
(28 marzo 2017) Ozpetek scrive di interni e di volti, e chi si aspetta larghi paesaggi urbani non sa bene di quelle sue angolazioni interiori sul ciglio di una lampada. E invece è proprio quella calda luce sospesa su salotti di legno e ceramiche rovinate a fermare la vita dei suoi personaggi. Fermarla, interromperla. Volutamente. Come persone che abbiamo incontrato e lasciato, e adesso vagano fuori da noi senza che ne sappiamo più niente. Di noi, di loro. Di come ancora ci mettono nelle dita del mondo. E tutto ciò ha il fascino di un'intimità che pochi sanno restituire senza sovrastrutturare.


Almodovar, per esempio, ugualmente regista di interni, spinge però, coi colori e le caratterizzazioni dei volti, dei nasi, degli ambienti, delle relazioni, per una nostalgia di reazione. Ozpetek invece rimane più psicologico, con il suo quasi blu di ogni scena. Il contesto è una deriva, e i suoi attori, fossero anche solo quelli più tristi, abbassano quasi sempre gli occhi, ma non perché si arrendono, perché hanno occhi così densi, così pesanti, portano tutto, che sarebbero piombo negli occhi degli altri se visti. Soltanto intuirli. Per spettatori ugualmente esistenzialisti, verticali. Con la testa piegata dal peso anche loro.



E anche se è Istanbul, la città che Ozpetek non descrive e che invece porta dentro il più possibile nascosta (ma viene fuori, cavolo se viene fuori, per chi se ne accorge), la vita passa comunque fra i bicchieri di una sala da pranzo, antica, addobbata di sguardi e di gesti. Lenti. Pittura incrostata. Il rosso soprattutto, che però diventa più rosso nel ponte e nei dettagli, così nella cover di un enorme "telefonino".



È solo in un momento che la si può guardare d'insieme e intera questa città, dall'alto, ma come se fosse una surreale istallazione di luci immaginate, con tutte quelle luci delle grandi città, qui solamente posticce: grattaceli impacciati di una modernità contrastata da un clima politico di impossibilità, con il Bosforo di lato o davanti, che i gabbiani commentano, e il silenzio delle menti semplicemente contorna.



Questa volta è la scena di inizio che tormenta, un punto di rottura, una lacrima che scende, l'acqua che si infiltra nelle pareti del pensiero, di una scrittura sfocata. Uno scrittore che piange. Quanti ne avete visti? Niente di melenso. Gli scrittori non piangono. Soffrono o muoiono in un momento, con una parola improvvisa, ma non stanno lì a farsi vedere sconfitti. Scrivono. E scompaiono. È un andare e tornare dal proprio vissuto fatto di piccoli mondi e parole confusi. E di persone che molliamo agli angoli delle stanze, ai piedi di tutte quelle lampade sentendoci soli.



Ma qui c'è una sconfitta precisa e narrata: andarsene dagli altri e non scriverne più. A che serve. Lasciare i personaggi cavarsela da soli, abbandonati sulle rive, fra i sedili di un traghetto, nelle stanze di una casa tutta rotta, vicino alla cuccia di un cane, dentro gli occhi di una donna che non ce la fa più a rischiare la vita. Lasciare tutto. Che tutto vada a perdersi, perché scrivere è inutile, e inutilmente doloroso, come l'amore che non si ha il coraggio di prendere, e neanche di perdere. Aspettare. Ma a che serve. Eppure gli scrittori aspettano, come gli amanti più illusi, e perciò vengono crocifissi ogni giorno.



Il titolo del film: "Rosso Istanbul. Niente è più importante dell'amore", e sono il rosso e l'amore gli aspetti più eclatanti, di chi li vive, da solo, e con un coraggio che nessuno comprende. L'amore quando ne scriviamo è ciò che non abbiamo. Lo cerchiamo, sempre, purtroppo nelle menti sbagliate, che non hanno fantasia, se non di facciata, e senza coraggio, comodi di averne consumo, incapaci di esistere nella vita di un altro. Solo con l'idea di farne. Ma l'amore non si fa, contrariamente al detto comune. "Voglio fare l'amore!". Non significa niente farne.



Così l'amore si perde dentro. Che intuizione perfetta. E la regia lascia proprio questa sensazione di vuoti, di strade cercate e abbandonate, di persone che adesso vivono nella desolazione dell'idea di se stessi. Dall'idea disillusa di chi a un certo punto solamente li ha scritti. Pregnante.



Su una terrazza c'è un uomo con la scultura di un'ala. Per strada una donna così bella che scende le scale nel mezzo, presagita da lontano com'è soltanto un ricordo. Facce di morti violente dai giornali sono appiccicate nelle stanze di una casa senza nessuno. Un ponte sempre teso ti porta verso l'al di là sempre invadente, mentre il coraggio di un uomo é a tornare, proprio indietro dove ha lasciato l'amore. Altrimenti andare avanti non serve. Altrove non serve. Oltre il ponte non serve. E lo chiede, lo chiede con forza l'amore, alla donna che ama e all'uomo che l'ha sposata.



Che meraviglia l'amore che chiede l'amore. Peccato che proprio l'amore non creda più in noi, convinti dei corpi che passano, e di giorni finiti.


28 marzo 2017
Articolo di
nostoi
Rubrica:
CINEMA


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