Da un lato ci sono i Pandava, e dall’altra i loro cugini, i Kaurava (i cento figli del Re cieco Dhritarashtra). Prevalgono i Pandava, e, Yudishtira, il più anziano, deve salire al trono con il peso di una vittoria macchiata dalla distruzione e dal sangue, e anche dalla morte di un fratello che non gli era stato raccontato come tale.
Dhritarashtra, che in questa guerra ha perso tutti i suoi figli (cento), e il nuovo re, suo nipote, Yudishtira, sono costretti a sopportare e a condividere lo stesso dolore e tutti quei lutti, eppure dovranno assumersene ogni responsabilità, per ritornare a quell'Equilibrio di nuovo Originario.
Eppure, questa regia non mi ha persuaso, non è il teatro che mi piace. Si, ricercato, equilibrato appunto, pensato nel suo profondo, ma, ad oggi, una convinzione religiosa come tante altre, anche se messa in scena con i colori e la voce calda, consapevole, dei suoi attori. Bravissimi.
È che siamo sempre pronti a rifiutarci alle religioni in scena, a preferire, anche dell'Antica Grecia, il Dioniso dell'Opposizione, come ci somigliasse, eretici e rivoltosi, avanguardisti anarchici del teatro che vogliono messo tutto sotto sopra, e poi, un'opera celebrativa come questa, di un metodo spirituale che pensa alla guerra comunque e in fin dei conti come a un esempio deterministico dell'evoluzione del mondo e della specie umana, ci piace riconoscerla come motivo, impulso di cultura, innovativa e rigenerativa. Commovente. Di sicuro è stata commovente, ma non mi basta a questo racconto. Non mi basta più al mio tempo. Cercavo qualche cosa di diverso. Basta con questo atteggiarsi, parlo di noi osservatori, a popolareggianti borghesi di maniera. Specie di fronte alle guerre, che poi in fin dei conti non ci toccano, e perciò possiamo guardarle con occhio sapiente e sereno.
Io l'ho trovata un'opera vecchia, borghese appunto, soprattutto perché raccontata di riflesso. Fossero stati gli induisti a rappresentarcela. Salubre, mistica, intensa anche in molte sue parti, ma vecchia. Vecchio il concetto di giustizia, vecchio il concetto di trasmigrazione dei corpi, vecchio il significato della terra e dell'acqua che purifica. Cioè, per me, e mi rendo conto di avere forse in questo modo una visione del tutto isolata dell'opera, non c'era niente della realtà per come la viviamo noi oggi, anche in questo pezzo di mondo martoriato solo come proiezione dalle guerre che succedono invece altrove.
Il messaggio centrale: "nei meandri della vita, la morte c'è sempre", e perciò: tutto è sempre giustificato dal conflitto, per quanto vada risolto. Le guerre ci devono essere, ci sono sempre state. E ci saranno. Solo gli uomini più giusti, quelli "chiamati" ad esserlo, sapranno trarne il significato più universale, anche qualora questo messaggio non sarà del tutto chiaro. E chi sono questi?
Ma di più: questo conflitto, che porta a conseguenze così disumane e atroci, in questa narrazione e nella realtà vera, che ne fa (con le guerre e gli scannamenti che devono esserci per forza, anche se poi vengono purificati), fra le cose più crudeli mai viste (come in Siria), spinge alla fine a un atteggiamento da tenere che non è diverso da quello tenuto, quello che teniamo, di non coinvolgimento effettivo e di davvero troppo facile osservazione a distanza, accettazione e sublimazione (religiosa) di eventi che non comprendiamo veramente nella loro crudezza.
E poi, in questo lavoro non c'è neanche tutto questo sforzo interpretativo, di regia e di trasposizione teatrale. Sarà che il testo vive dei riflessi ancora del successo avuto al Festival di Avignone nel 1985 per il significato, e perciò il suo pregio ci viene raccontato da quel di, ma, proprio per tutta questa distanza temporale, e generazionale, pur rimanendo valido il riferimento a un'opera religiosa così tanto apprezzata e espressiva, in realtà viene messa in campo in una maniera del tutto scollata dalle cose per come succedono davvero. Forzatamente pacato, perché in sé nasconde quella ribadita risoluzione, ogni volta, del predestinato. Ma di questo "predestinato" e di questi "prescelti" veramente non se ne può fare più un insegnamento.
Visto al Teatro Argentina di Roma
Tratto dal Mahabharata e dal testo teatrale di Jean-Claude Carrière adattamento e regia Peter Brook e Marie-Hélène Estienne
con Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba, e Sean O’Callaghan musiche Toshi Tsuchitori costumi Oria Puppo luci Philippe Vialatte
Spettacolo in lingua inglese con sopratitoli in italiano adattamento e traduzione a cura di Luca Delgado
Produzione C.I.C.T. - Théâtre des Bouffes du Nord
Co-produzione The Grotowski Institute, PARCO Co. Ltd / Tokyo, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, Young Vic Theatre, Singapore Repertory Theatre, Le Théâtre de Liège, C.I.R.T., Attiki cultural Society, Cercle des Partenaires des Bouffes du Nord