Sembra uno spettacolo su Roma, e invece: è "Gente di Dublino". Messo in scena in un Teatro nascosto, il più sotterraneo di questa città. Così tormentata, con i suoi morti, i suoi ribelli, gli abusati e gli indifferenti. Un Teatro, "La Comunità", dove, non a caso, da più di quarant'anni, nel sottosuolo, succede la vita che in superficie spaventa, e si nasconde la morte. Vogliono chiuderlo, fallisce, vorrebbero spegnerne ogni forma. Eppure è dall'opprimente e con l'oppresso che ci si ribella. Sfratto e sgombero. Non fermeranno questo Teatro.
Un testo, quello di Joyce, emblematico e realistico, contemporaneo, a dare il senso delle cose perdute, seppure lungo il percorso narrativo di trame del tutto inesistenti. Un'opera che sembrava fallita, rifiutata più e più volte, ma da ottusi editori.
La Comunità e Joyce. Prendi le scalette per scendere e ci entri già dentro, e fra le foto di Beckett, ti trovi immerso in un cielo notturno, proprio lì, vicino al botteghino. Poi entri di più, oltre una tenda, e ti perdi del tutto. Uno di quei pochi teatri qui a Roma dove guardi dall'alto anche se dentro è un abisso. Già è sotterraneo, poi le sedie sono sospese rispetto alla scena. E questa scena è addirittura più profonda. Un enorme tavolo messo fino in fondo fatto di fiori finti e colorati, simulano il prato d'Irlanda. Sotto: i suoi morti. Non visti. Sotterrati dal buio. E quei fiori finti, come ammasso di spazzatura, sembrano profumare, e accelerare così ogni inevitabile putrefazione. Invadere il buio. Sotto, quegli uomini cominciano a muoversi. Si agitano come invasati da un male che ritorna a soffocarli. È impressionante. Poi si alzano e raccontano la vita. L'Inghilterra che li osserva e li sbeffeggia di lato. Con bandiere e tazze di tè, ventagli e megafoni. Il testo rigorosamente in lingua originale.
La musica intreccia le emozioni stratificate fra i personaggi. Li fa ballare, correre verso un treno, spingerli sulla banchina da dove una nave sta partendo per sempre, mettersi fra le parole di un amore deluso. Si spogliano e si rivestono. Si ammassano su quel tavolo, frugando e alimentandosi fra i fiori, dei fiori. Si cibano dei resti. Bevono e barcollano, salgono come forsennati a improvvisare una festa, tutti ubriachi, poi si arenano ai margini, deflagrati come barboni. Giocano, mangiano, bevono. Su quel tavolo, che è terra e passerella, banchetto e ring di lotta, luogo di morte. Lì dove iniziano processioni e proteste, poi si agitano partenze e si attuano abbandoni. Pianti silenti.
Questa regia è poetica, aiutata certo dalla musica, intensa e drammatica. Note a tratti sarcastiche di violenza e dolore. Guerre sullo sfondo. Poteri sguaiati e flussi migratori, necessari come la mortificazione dell'accoglienza. Come è oggi. Come è qui. Gli attori tutti investiti di una causa superiore: cento repliche per non smettere di fare Teatro. Eccellenti.
Dovesse succedere di andare, Giancarlo Sepe, saprai portarti dietro non solo questo luogo, ma tutto il Teatro che questo luogo contiene e ha contenuto, i suoi attori. Fondatore di un Teatro di impegno e regista intimissimo, di spettacoli sempre così delicati, dirompenti e suggestivi, sapiente, non ti arrenderai.
di James Joyce
Part 1 The Dead - Part 2 Ivy Day
Regia di Giancarlo Sepe
con (in o. a.) Giulia Adami, Manuel D'Amario, Luca Damiani,, Loris De Luna, Giorgia Filanti, Pietro Pace, Federica Stefanelli, Guido Targetti, Adele Tirante e con la partecipazione speciale di Pino Tufillaro
scene e costumi Carlo De Marino,
musiche a cura di Harmonia Team con la collaborazione di Davide Mastrogiovanni
produzione Compagnia Orsini