Erano tempi di vacche grasse e Luca Ronconi, che poteva ben disporre di adeguate risorse anche per il saggio degli allievi, aveva immancabilmente costruito il suo kolossal portando la sua prima classe di diplomati in una tournée che avrebbe toccato persino il sud America. Ora questo Pilade diretto da un allievo che ne fu in molte occasioni regista collaboratore, suona come un tributo non solo a Pasolini ma anche al suo maestro: un tributo radicato e necessario.
Il secondo filo è quello che lega la messa in scena dell'Orestea di Eschilo e in particolare di Coefore e Eumenidi per il centenario del Teatro Greco di Siracusa in cui Salvo si domandava, sulla scia di Pasolini, se oggi non siano tornate le Furie, quelle stesse Furie addomesticate dall'artificio di Atena, redivive detentrici del vero potere in una società fondata sul benessere e sul consumo, consegnata alla menzogna e all'omologazione.
Il terzo è la fondazione di una nuova compagnia di attori under trentacinque, I sognatori, che prende il nome da uno spettacolo fortemente identitario del percorso registico di Daniele Salvo, dedicato ai poeti russi del novecento, "gli ultimi uomini che vaneggiano ancora di poesia, dolcezza, onore e umanità": Majakovskij, Esenin, Pasternak, Cvetaeva, Achmatova, Mandel’stam, cioè gli eterni guardiani della memoria e del futuro, suicidati della società, storditi, rinchiusi, tolti di mezzo perché scomodi, dissidenti, scandalosi. Voci che gridano dal fondo di un pozzo per affermare la vitalità della poesia, la necessità irrinunciabile di essere poeti, ostinati custodi degli albori del mondo, un mondo ideale, non ancora corrotto, addomesticato, strumentalizzato dai meccanismi di potere. Il mondo di Pilade, lo scandaloso reazionario pasoliniano che si ribella al potere della ragione quando ormai la ragione si è svenduta al potere, e con esso al denaro e al più triviale progresso.
Ecco, sta proprio in questa caparbia volontà di resistere il senso della nascita dei Sognatori e il progetto Pilade, arrivato come la chiusura di un cerchio a inizio percorso, ne rappresenta ad un tempo l'atto e il patto fondativo.
"In questi tempi di profonda crisi spirituale e culturale, di consensi predeterminati, di lobby di potere spietate -scrisse Salvo presentando al pubblico la compagnia nata lo scorso anno-, un gruppo di giovani artisti vuole percorrere una nuova via fondata su necessità, rispetto, dedizione, umiltà, analisi e ricerca serrata".
Che concretamente aveva significato, così per cominciare, un mese di prove assidue e non retribuite, visto che il progetto non godeva di nessun finanziamento, e si era reso possibile grazie alla disponibilità del teatro Vascello di Roma, lo spazio diretto da Manuela Kustermann, riconosciuto centro di produzione.
Il regista lo aveva definito uno studio, una fase di verifica e assestamento della compagnia composta da sette attori e nove attrici, benché si fosse trattato già lo scorso anno di uno spettacolo compiuto a tutti gli effetti, risultato di un lavoro meticolosissimo sul testo e sulla parola. In cui la dimensione creativa è strettamente inerente alla decodifica della scrittura, che è complessa, densa, verbosa.
Per gli attori significa innanzitutto farsi carico del linguaggio letterario pasoliniano e poi fare di esso occasione di un teatro fisico, emotivamente compromesso, che trasformando la parola come creta, cerca una lieson con il proprio corpo, frugando negli interstizi di una scrittura necessaria, che racchiude un'energia imprigionata, fortemente erotica, per ridare corpo e voce a quella del poeta: voce lucida, analitica ma passionale, brutalmente silenziata e tolta di mezzo.
In Pilade Pasolini gioca con la tragedia greca, prende a prestito gli archetipi tragici eschilei per distillare il suo mondo e il nostro attraverso due punti di vista opposti e complementari, che sono la medesima faccia dello scrittore, "due personaggi -spiega Daniele - evocati come una necessità del personaggio che li precede".
Pilade è il nato per essere amico e il mito di Pilade, che nasce dall'energia disperata di un uomo che frammenta il proprio io in tanti personaggi, è la storia di un tradimento. Tradimento di una parte di sé, della propria grazia e della propria innocenza, che si manifesta come tradimento da parte di Oreste, l'amico fraterno divenuto fedele al nuovo culto di Atena, che per Pasolini si identifica con il pensiero occidentale dominante che ha perduto ogni traccia del sacro.
Il sacro, per cui Pilade il diverso prova nostalgia e in nome del quale mette in atto la sua personale rivoluzione. Una rivoluzione insieme ai contadini, i non borghesi, coloro che denunciano l'irrimediabile distanza tra il pensiero moderno e la cultura classica. Ma nelle figure di Pilade e Oreste l'io di Pasolini si frammenta in una dialettica che non prevede catarsi perché se il trionfo è quello volgare della ragione di Oreste, la sconfitta è la maledizione di Pilade contro "ogni ragione e ogni religione". Una maledizione che arriva disperata, alla fine, sorta di abiura di ogni speranza, tanto più forte quanto forte era stata la sua idea di rivoluzione possibile.
La convinzione che l'unità perduta del mondo arcaico si potesse e dovesse recuperare aveva guidato la sua ribellione ma sarà lo scontro finale con la ragione di Oreste a decretare quello che farebbe ipotizzare una conclusione nichilista di questo dramma autobiografico.
A differenza della tragedia greca in Pasolini l'espiazione non porta con sé nessuna catarsi e quello che resta è un crogiolo di domande senza risposta. Nella vittoria di Oreste c'è la sconfitta di tutti, di un'umanità alienata, svilita e svenduta alle peggiori sirene, un'umanità "in pericolo", a cui Pasolini non restò il tempo di indicare una via.
Siamo tutti in pericolo è il titolo dell'ultima intervista rilasciata a Furio Colombo la notte prima di essere ucciso. Lo aveva suggerito lui stesso al giornalista che gli chiedeva di indicarci una via di uscita. Ma lui aveva bisogno di rifletterci su ancora una notte. (link dell'articolo: "Siamo tutti in pericolo")
Questa ossessione che lo ha accompagnato tutta la vita, e che ritornava in quasi tutti i suoi scritti con declinazioni e forme espressive diverse, nel teatro ha trovato una sorta di compressione. Sei tragedie scritte di getto, durante la convalescenza dopo un'ulcera perforante, più volte rimaneggiate negli anni, a partire dal 1966. Affabulazione, Orgia, Porcile, Calderon, Bestia da stile e Pilade, il cui obiettivo è il nostro dopoguerra reale e morale che qui si restringe sui corpi (evocati) di Clitennestra ed Egisto. Corpi ripensati come il ludibrio di piazzale Loreto, di fronte al quale il popolo bove e voltagabbana giudica e disprezza.
E' un popolo-coro che nasce cinico e corrotto, partigiano dell'uno o dell'altro secondo gli umori e la convenienza.
Siamo in un tempo governato dalle Furie, e sono proprio le Furie, ancor prima di Atena, l'elemento 'religioso' che preconizza l'inutilità della rivoluzione di Pilade. Come se la sua definitiva sconfitta fosse inscritta in un destino che serpeggia e sovrasta le scelte di pochi, rendendole inefficaci e impotenti.
Alla luce di questa religiosità infiltrata, immanente, si chiede agli attori una temperatura emotiva elevatissima che invita a ripensare come figure tragiche i personaggi che si muovono in realtà in un 'contenitore' borghese.
In uno spazio sgombro, caratterizzato solo dal fondale di colore sempre diverso, gli attori si muovono creando le scene con la sola disposizione dei corpi, in un rimando costante di equilibri, e grazie a un simbolismo basilare e diretto si racconta, per esempio, l'omologazione del popolo, sorpreso seduto alla stessa maniera, le gambe accavallate e le sedie identiche, o l'euforia pecoreccia che li vede scorrazzare nella piazza sventolando bigliettoni.
Sono segni forti che identificano lo spettacolo tutto e che ritornano nel lavoro 'individualizzato' sul coro, che distribuisce le battute inventando per ciascuno piccoli camei di stoltezza, grettezza, poesia. Il contadino toscano di Simone Ciampi, impegnato anche nella difficile scena di esordio, sprezzante di fronte ai corpi di Clitemnestra ed Egisto e poi nel ruolo del vecchio, dalla parte di Pilade; la serva di Elena Aimone che pare attraversata, posseduta dalle Furie (anche la Aimone è impegnata in duplice ruolo come regina delle Eumenidi); il ragazzo messaggero di Michele Costabile, un immaginario pasoliniano a cui il giovane attore rende bene giustizia; la signorina occhialuta di Claudia Benassi, bravissima nel tratteggiare il personaggio forse più identificato di tutti, sussiegosa timorosa petulante; la donna ubriaca di Francesca Mària, calibrata e attenta a non cadere nella caricatura. E tutti gli altri popolani e corifei, che sono maglie indispensabili di una tela fitta e ritmata, che procede senza lentezze. Paola Giglio, Melania Fiore, Sala Pallini, Sara Aprile, Piero Grant, Simone Bobini, Alessandro Gorgoni, che dei Sognatori è anche assistente alla regia.
Il ruolo di Atena è di Silvia Pietta, altera e sicura in pattini a rotelle, che si diverte a contraddire l'immaginario radicato che colloca la Dea in una posizione statica e superiore. Ma qui si tratta di sedurre il popolo partendo dal popolo per meglio ingannarlo e la scelta di mobilità, unita alla voce metallica ricca di armonici, quasi 'ammiccante', ne rappresenta la 'astuta' premessa. Vale la pena ricordare che Luca Ronconi, nel saggio citato, aveva dotato la Dea di una bicicletta da uomo dalla quale non era mai scesa.
Elettra invece è Selene Gandini, che rispetto alla prova dello scorso anno mi è parsa ancora più versatile e plastica nell'accompagnare l'evoluzione di un personaggio attraversato da sentimenti e umori scuri, ripiegata sul proprio passato, a tratti fanatica, e dissonante rispetto al presente. Oreste è Marco Imparato, pseudo intellettuale con tanto di occhialetti che parlano chiaro. Un politico appena sceso in campo, portatore sano di malattia, prima serafico poi cinicamente piazzista, sedotto com'è dalla dea ragione e dalle sue peggiori metastasi.
E infine il ruolo del titolo affidato a Elio D'Alessandro, attore giovane e maturo, che ha regalato a Pilade la giusta carica eversiva nutrita di nostalgia, smarrimento, fragilità e dolore. E un erotismo primario, che è innocenza e brutalità, desiderio e abbandono, eccitazione animale e disperata rassegnazione.
Uno spettacolo importante, con una regia concentrata sulle relazioni -Pilade e Oreste, Oreste e Elettra, Elettra e Pilade- tracciate con millimetrica precisione, accompagnate da un pensiero coerente che si distingue in filigrana.
Al centro, la simbiosi interrotta tra due amici che non si riconoscono più, lo scontro di due mondi che non si capiscono, lontani e perdenti, il conflitto mai risolto di un uomo che cercava nel fango un po' di poesia.
Il lavoro sulla vocalità, sostanziale come in tutti gli spettacoli del regista, non rinuncia a sgranati e false corde, ed è stato curato da Melania Giglio. I costumi, unico elemento di 'arredo', sono di Nika Campisi e Claudia Montanari. Le musiche e i suoni, innestati nelle battute, mai accessori, sono di Marco Podda.
Roma Teatro Vascello - 21 aprile/1 maggio 2016
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