Io credo che pochi personaggi della letteratura teatrale siano stupidi e superficiali come Torvald Helmer, avvocato. Non è immorale, amorale, cattivo, Torvald è stupido e superficiale. E così il suo maschilismo, che è indolente molto più che ideologico.
L'ideologia infatti, anche quella che nutre il maschilismo più retrivo, necessita di un'assunzione, di una presa d'atto e di una rivendicazione. Torvald invece è tristemente accomodato in un menage familiare fatto di vezzeggiativi e ipocrisie conclamate.
E non c'è niente in lui a cui aggrapparsi se non un miracolo, appunto.
Ma questo è anche il paradosso di Nora, la sua inattaccabile logica che lui non afferra. Solo un miracolo potrebbe salvarti, ma i miracoli non esistono e quindi buona notte, me ne vado.
Anzi no, i miracoli esistono e il caso ha voluto che sia accaduto un fattaccio per cui l'idiozia senza appello del marito le si sia parata davanti con una violenza improvvisa. Mistificata sotto forma di ingratitudine, ma inappellabile.
Ecco, la versione che ne ha dato Emanuela Giordano, regista di Quartetto Casa di bambola con Mascia Musy, Stefano Santospago, Graziano Piazza e Alessandra Fallucchi, ha fatto di Torvald un uomo un po' meno stupido, liberando il testo della battuta finale che è appunto “Il grande miracolo …?” , una domanda nell'etere, rivolta a chi non si sa, visto che lei si è già tirata dietro la porta.
Nora non torna, punto. Non c'è miracolo che la faccia tornare come non c'è miracolo che ti faccia rinsavire. Non si fa pace, il lieto fine non esiste e anche l'involucro si è ormai frantumato.
Sarebbe stato questo il senso della più celebre opera di Henrik Ibsen, forse anche la più tradotta e rappresentata, considerata nel tempo bandiera di un femminismo oggi acquisito (o almeno si spera). Sarebbe, perché nella Norvegia e nell'Europa perbenista di fine ottocento Nora sarebbe invece dovuta restare.
Continuando a convivere con un'ameba in carriera tra tovagliette di pizzo e pasticcini interdetti. Perché nemmeno due pasticcini glieli lasciava mangiare.
Fatto sta che Ibsen dovette scrivere un altro finale, ipocrita e compiacente, che non urtasse la pruderie di pubblico e critica, oltreché degli interpreti, visto che fu un'attrice a rifiutarsi per prima.
“E' vietato parlare di Nora”. Pare che sugli inviti alle feste mondane nella Norvegia di allora ci fosse scritto così.
E la versione della Giordano lo documenta, insieme alle vicissitudini che hanno accompagnato le prime rappresentazioni, recuperando alla recitazione le didascalie e le battute di raccordo, scritte di suo pugno.
Lo spettacolo infatti vive di un intervento drammaturgico sostanzioso, accordato su quattro interpreti, che illustra anche l'altro finale e chiede agli attori di gestire la prima e la terza persona, in un movimento dentro fuori sicuramente non facile, considerando il peso che nei drammi di Ibsen ha l'antefatto, e tutto il reticolato di sottotesti che viene interrotto con il passaggio alla terza persona.
Ma è una versione scarnificata, concentrata su relazioni binarie che emergono nella loro astrazione, portatrici di un cinismo che è atemporale. Nora e Torvald, Nora e Kristine, Nora e Krostad, Kristine e Krogstad.
E su un rapporto binario è modulata anche la scena che sembra declinare senza mezze misure i colori della tastiera del pianoforte, unico oggetto in un ambiente sgombro di tutto. Sono bianchi e neri i costumi degli interpreti, e le luci neutre sono l'unica fonte che illumina il buio di una scena dominata dal nero.
Graziano Piazza, nel ruolo di Krogstad, riesce a calibrare con precisione il processo di entrata e uscita mantenendo la memoria del personaggio nella terza persona, mentre Mascia Musy privilegia di Nora una sofferenza compassata, interiore, che mi ha ricordato almeno una volta un'Antigone inerme di fronte a una legge sbagliata che non tiene conto dei sentimenti.
Più contenuto il Torvald di Stefano Santospago, ancora un po' generico e in via di precisazione, soprattutto dal punto di vista della temperatura emotiva, troppo bassa, e la Kristine di Alessandra Fallucchi ancora un po' disorientata nel passare da un piano all'altro.
E poco identificata è anche la gestualità complessiva, che sfugge all'approssimazione diventando convenzionale.
Visto al Teatro India di Roma
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