Lei è la Fallaci, quella che adesso tutti odiano perché ha scritto contro gli immigrati.
A parte che uno può scrivere quello che vuole, sempre, anche quando non siamo d'accordo, anzi, ognuno dovrebbe avere il coraggio di farlo proprio contro tutti, anche se si sta sbagliando. Che fa uno scrittore, si adegua al pensiero comune, degli altri, al pensiero quello giusto o condiviso? La pensa come chi è buono? La scrittura è innanzitutto libertà di scrivere, tutto, ma proprio tutto quello che uno ha voglia di scrivere, anche l'inverosimile, anche l'inaccettabile. Lo scrittore deve, dico deve, essere eretico, anarchico, sovversivo, finanche intimidatorio! E gli altri possono allo stesso modo scrivergli contro tutto quello che vogliono, certo!
Ma poi, a parte questa storia degli immigrati...lei è quella madre, uguale a tutte le madri, che non ha potuto! E ha scritto anche di questo (e non solo di questo!). Ha scritto di un dolore che poche, e pochissimi al maschile, potranno mai sentire nella propria carne. E ha scritto a un bambino, al suo bambino, con quella stessa cattiveria con cui ha scritto degli immigrati, quella stessa caparbietà, quella stessa ribellione, quella stessa non uniformità, la stessa voglia di vivere la vita a modo suo. E adesso mi accorgo che per un po', per qualche tratto, le ho assomigliato. Anch'io ho lottato e lotto proprio contro tutti, come donna, per qualche mia vicenda personale (per certi versi anche collettiva).
Questo mondo manipola la nostra mente, le nostre paure, e il nostro corpo. Lei si rifiutava. Si rifiutava ai maschi. A quelli che ci vogliono obbligare, e alle culture che radicano con la forza e la prepotenza, anche solo con arroganza, quei valori maschili che socializzano le donne al maschile. Com'è questa nostra cultura fallocentrica! E non c'è bisogno certo di andare all'estero.
La possibilità di avere un bambino, sentirlo nel proprio corpo, prima crescere e poi morire, è vita, vita quasi senza peso, ma è vita che si oppone, che ti chiama a vivere, che vuole la tua ribellione, la tua ostilità al medievale: ai medici che ti toccano come se facessi loro schifo, agli uomini che ti abbandonano perché sei incinta, oppure perché non sai esserlo, alle altre donne che sono già mamme e ti giudicano peggio di quelli di prima, anche solo mostrando pietà, il disprezzo peggiore, quello più invadente.
Quel bambino ti chiama, anche da lontano, anche se fai finta di non sentirlo, ti chiama perché vuole vivere. E non è amore, è vita! Vita quasi senza peso. E non tutto ciò che è vita è amore. E noi donne lo sappiamo bene. Non siamo barattoli. Anche perché poi nei barattoli la vita muore. Noi siamo corpi che non possono essere annullati, mutilati, saccheggiati, manipolati, posizionati secondo il desiderio degli altri. Corpi che si allargano alla vita che viene. Si allargano e basta, ma con tutti gli organi. E poi, caso mai, se quel bambino non viene, può essere che quegli organi si avvizziscano. Che ogni stato mentale si avvizzisca. Ogni desiderio e anche le mani.
Questo spettacolo è fatto di tanti momenti di disperazione, di lotta contro tutti, di morte e di vita. E la vita urla. Io la sento urlare dentro di me ogni notte allo stesso modo. La capacità dell'attrice, una commovente Melania Giglio, di interiorizzare ogni umore, tutta l'angoscia e ogni singola parola e farli diventare contesto e insieme dolore personale, è di grande intensità. Una interpretazione molto toccante, a rileggere sia le fasi dell'attaccamento, sempre schivo e insolente, sia quelle poi del lutto e della separazione, che distruggono quell'idea di felicità, o di esistenza, che ci siamo immaginate noi donne.
Io la ringrazio in particolare per quell'urlo in mezzo alla scena, che mi ha liberato di quell'urlo che io non ho mai urlato, e che lentamente ha lesionato tutti i vetri che mi porto dentro, che ora, anche a camminare, devo stare molto attenta!
Visto al TEATRO DUE di Roma il 15 gennaio