"Devi raccontare la tua storia e devi dimenticarla". Come si fa? Così si fa. Attraverso gli oggetti che esprimono la tua anima in una forma che ti sembrava sconosciuta. Si, perché la materia, il corpo, ha una sua forma intrinseca, o più forme intrinseche, che ancora non conosci e che ti si svelano nell'aggressione che le usi, che le usano. Perciò la scultura. Per rifare quel gesto violento che ha rovinato il tuo aspetto anteriore, ad averne uno nuovo, seppure traumatizzato. Fare diventare quella forma: enorme; tagliuzzarla, assemblarne i frammenti, e ogni volta averne un'immagine diversa, un'immagine che ha dimenticato quella di prima, pur portandosela dietro!
Ma questo spettacolo è divertente, fa parlare lei, soltanto lei, con quel suo carattere dirompente e mai sottomesso, lei con addosso le scarpe da tennis in una mise dada newyorkese da donna dinamica di un tempo, ma che ancora deve venire.
Le sue installazioni di metallo, quegli enormi ragni a simbolo della madre che sovrastano i passanti delle città, città come ragnatele, strutture invisibili e sociali, costruite lentamente e che ti avviluppano, e questi membri maschili enormi, con quei titoli discordanti, la casa con sopra la ghigliottina e i busti di donna con un coltello piantato nell'intimo come fosse un nuovo "genitale" da esperire, in un viaggio onirico e surreale, attraverso le molestie all'interno della famiglia, molestie forse non volute eppure agite con tanta di quella crudeltà, sono il risultato di una lotta, una lotta del tutto femminile che si riappropria del proprio corpo come materiale rigido, e che perciò bisogna modellare, che ogni volta bisogna riconsegnare alla vita. Alle emozioni.
Il testo è ricco di rimandi suggestivi, e la regia è di un garbo esemplare, pur restituendo le irriverenze e le intemperanze di questa donna unica e magnifica. Nei gesti. Molto brava l'attrice, in ogni tratto amorevolmente assorbita dal personaggio.
Visto al Teatro dei Conciatori di Roma