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"Elettrocardiodramma" di e con Leonardo Capuano al Teatro Argot di Roma
di Chiara Merlo

...non dirmi così che mi sciolgo, e se mi sciolgo divento acqua, e quando fa caldo poi evaporo, e tu mi respiri...così quando sei triste e pensi a me ti scivolo giù dagli occhi

(dal testo dello spettacolo)
(31 gennaio 2015) In questi teatri piccoli come l'Argot, quello che ti succede, ogni volta, è di sentirti risucchiato dalle vicende che ti stanno per raccontare lì dentro, questo già non appena che entri, l'aria di quella stanza ti impregna di vissuto, del tuo stesso vissuto, e il mondo ti sembra veramente piccolo, quasi del tutto tuo. E quasi pensi che su quel palcoscenico ci sarai tu, seppure i sedili dove ti lasciano assistere, fosse anche al tuo accadere, sono posizionati come sospesi rispetto al resto, sollevati vertiginosamente e in verticale, eppure non troppo distanti da quel dolore, da quell'impazzimento, tanto che fra quei tuoi pensieri, e quelle emozioni forti, e le persone che pure ti senti addosso, a un certo punto come vortichi su quel perno che è l'attore. Così mi sono sentita. Direi fin da subito: com-presa. E il mio corpo si è sovrapposto. Forse che la mia storia non doveva essere, adesso a pensarci, poi così diversa.

E lo posso acchiappare con le mani quel corpo lì non così lontano da me. È così agitato, e infatti sento che vorrei fermarlo, tranquillizzarlo, abbracciarlo. E invece resto profondamente inquieta e seduta. È un delirio, di voci che mi appartengono, di dissociazioni mentali e coniugali, di relazioni che mi hanno fatto soffrire tanto, moltiplicando in me insicurezze e turbamenti, malesseri e disagi. Solamente per il rifiuto.


C'è un uomo, forse è un uomo, che è vestito come una donna (forse allora è una donna), che ha delle gambe storte e magrissime, spente! Poi dei calzini e delle scarpe maschili. Sopra quel vestitino blu, una testa che per me è gigante, rasata da lager, e due occhi azzurri azzurri infuocati di rosso. Eppure questa persona che ho davanti, paradossalmente per me, ma forse non solo per me, è come non ci fosse. Si è persa forse, ma chissà dove, e io ne scorgo furiosamente solo lo spettro. Balla e tiene il tempo con una gamba nervosa che è più irrequieta dell'altra, batte forte anche le mani, e aumenta il ritmo, continua a girare su se stessa senza pace, come una mosca. Vortica fastidiosa e insistente e a tratti si ferma e forse muore, ma poi ricomincia.



C'ha tanti di quegli amici invisibili che in quella stanza pare che non ci entrino, alcuni di sicuro si nascondono, altri si muovono rasente e circospetti lungo le pareti; donne amate, o forse uomini, scappano intorno al tavolo senza farsi mai raggiungere, e poi una madre insolente che proprio non vuole riconoscerli tutti quei figli che si accovacciano sotto l'alea invisibile di quell'uno apparente. O forse è lei stessa che se li è immaginati tutti, e ogni volta disperatamente così doppi. Forse non li lascia vivere, ma poi se ne pente. Frasi pronunciate senza senso, che poi a vedere bene un senso di sicuro ce l'hanno, mentre spasimano nella memoria!



Questo testo è denso e cupo, ma raccontato anche con ironia e leggerezza. Parla di una follia che è già stata, ma è come se stesse di nuovo accedendo, e a causa di qualcosa che non sappiamo ma immaginiamo. Parla di fragilità e marginalità, di come hai passato alcuni giorni della tua vita proprio sull'orlo del crollo emotivo e poi nel pozzo nero del furore, del tormento e delle allucinazioni, con quei mille frantumi di te che continuano a vorticare e che non riesci più a stringerti dentro. Vagano, ti circondano, ti deridono, annientano ogni possibilità di desiderio e di equilibrio. E non servono farmaci, non basta la luna, il respiro è sempre affannato, scoraggiato, inadeguato.



La regia è particolare, nel senso che bene isola tutti questi ricordi, tutte quelle frasi sconnesse e i movimenti mimetici del corpo e del volto in un ambiente ovattato e irreale, con l'aiuto della musica dirompente e di luci sapienti, ma è l'interpretazione e l'uso esasperato di ogni espressione facciale e di ogni gesto, e insieme di ogni parte del corpo, che rendono questo pezzo davvero drammaticamente così verosimile e commovente.



Leonardo Capuano ha un uso gentile che in ogni caso spicca in mezzo a quella follia, con quella mano che ogni tanto solleva come per chiedere aiuto, e la bocca sempre compressa in una smorfia di sofferenza ingoiata. Gli occhi certo sono la cosa con cui spiega meglio delicatezza e violenza. E quando alla fine in mezzo ad applausi riconoscenti ci sono sembrati ancora più veri, hanno anche lasciato come un'ultima fitta. Come sono fieri certi attori!


31 gennaio 2015
Articolo di
nostoi
Rubrica:
Teatro


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