Tutto il nostro male è lì, in quel fratricidio lì, nell’azzeramento di quella società orizzontale, che arrivava da lontano, dall’antica Grecia, e che ha sperimentato invece, ormai da secoli, forzatamente, la gerarchia dei più forti, il potere di pochi, l’arricchimento senza scopo in quella sua immobilità e resistenza, di più che ostinata (oseremmo dire atavica, se non fosse pericoloso dirlo!), a tutti i cambiamenti.
Perciò, se tutte le guerre trovano il loro significato più intrinseco in uno spietato fratricidio tra uomini, a ben vedere anche la guerra per l’impero economico mondiale della ‘ndrangheta è su quello stesso odio fra fratelli che necessariamente si regge. E paradossalmente: di calabresi che annientano altri calabresi, fino a che non ne resti nemmeno uno. E non importa se moriranno tutti, ciò che veramente importa è la causa: il profitto. O forse neanche il profitto, l’egemonia, il comando, al momento la prospettiva vincente su una società fra pari che non ha più strumenti.
Di fratricidi la criminologia non si è occupata molto, e neppure Freud, sul fronte psicoanalitico, ha fatto mai analisi troppo approfondite. La sociologia non trova il nesso tra la mitologia e la storia degli uomini, tra la leggenda e la realtà delle relazioni quotidiane, specialmente se hanno ancora a riferimento quelle familiari arcaiche. Il fratricidio perciò rimane solo un racconto, un’invenzione letteraria e drammaturgica, versione cinematografica noir immaginifica di quella che invece è sostanzialmente la realtà drammatica e crudele dei nostri giorni.
Sembrerà a questo punto più chiaro allora che la ‘ndrangheta è una mafia del tutto particolare: è una mafia a conformazione antropologica orizzontale, ma con aspirazione ideologica, politica verticistica. Tante sono le famiglie di mafia che si occupano indisturbate del malaffare, ma è quella più forte che deve avere via via il sopravvento su tutte. Famiglie, microsocietà, che perciò mantengono stabile, immobile, il potere di quella reggente. Una specie di feudalizzazione del male. Un medioevo funzionale a una sorta di impero fittizio. Fittizio, oppure già visibilmente in rovina.
Ecco perché il film apre su Milano. Milano e le altre città fuori dal “regno”, addirittura gli altri paesi, che sono semplicemente delle terre di conquista, mentre la rocca, il rifugio, la tana dove tutto degenera, resta il paesello. Africo. Nell’Aspromonte. Nella gola del torrente Aposcipo. Un paesello distrutto, di cemento, che offende il mare che pure guarda dall’alto.
La storia è appunto di tre fratelli, due che vivono a Milano, Rocco e Luigi (i bravissimi Peppino Mazzotta e Marco Leonardi), che gestiscono un’importante fetta del mercato della droga (ma di cosa si occupino deve sembrarci addirittura secondario), l’altro, Luciano (l’eccezionale Fabrizio Ferracane), che continua invece a fare il pastore e a coltivare la propria terra, lì, proprio ad Africo, dove per lui, e per quelli che verranno dopo di lui, proprio non c’è più niente di che sperare. Alle spalle hanno già tanti morti, ricordati in una casetta azzurra (come di carta pesta) vicino a una chiesa crollata eppure imponente.
Questo terzo fratello vorrebbe affrancarsi, e per ogni calabrese che davvero voglia farlo ciò vuol dire isolamento assoluto, vivere solo del proprio pensiero ostinato e contrario e di quelle poche risorse che quelli ti concedono di mantenere. Terra e animali. Questa prospettiva di vita, naturalmente, rimane inaccettabile per il figlio Leo (Giuseppe Fumo) appena più che adolescente, che perciò decide di “affiliarsi” definitivamente agli zii, cercando di dimostrare loro “valore” e crudeltà.
È questa scelta del ragazzo (un anti Amleto) che innescherà tutta una serie di assassini e la sconfitta definitiva di questa famiglia, una volta perso il potere di mafia proprio a causa della frattura che provocherà fra i fratelli la gestione delle sorti di quel ragazzo. Il finale è appunto apocalittico, ma rasserena. Non c’è possibilità di continuità, non ce ne deve essere. Per chi sul fratricidio ha eretto quel suo misero impero di cose c’è solo la morte.
La regia è davvero pregiatissima, perché tutto sembra ricoperto di pece, perché il paesaggio non è mai sovrapposto allo sgomento e all’impotenza, seppure in corrispondenza resti una metafora emblematica della distruzione e dello scempio. I simboli: gli animali, le donne, la chiesa non sembrano semplicemente contesto, ma sono come degli agenti attivi di una decomposizione lenta e assai duratura. Vermi. Le immagini sono teatrali. La lingua è l’aspetto più significativo del linguaggio, non più solo i gesti e le azioni, l’atteggiamento omertoso, ma invece proprio le singole parole pronunciate con il loro rumore, quella ruvidità dell’anima che si esprime con suoni gutturali e trascinamenti fonetici davvero fin troppo espressivi. Le parole precipitano sempre dentro a ogni frase come una raffica di “botti” (proiettili) ad annichilire l’interlocutore. La luce è naturalmente crepuscolare, ma sapientemente un passo più notturna, oltre la metafisicità del crepuscolo, nel quasi notte che è più realistico e crudo. Gli attori sono tutti davvero molto bravi (i due ragazzi forse un po’ di meno, peccato!) e anche la sceneggiatura esprime un livello di scrittura davvero elevata (Francesco Munzi, Maurizio Braucci, Fabrizio Ruggirello).
Non ci sono difetti a nostro parere per questo film, supera anche il più altisonante Gomorra di Garrone, a parer nostro (che pure era stato sinceramente molto apprezzato), perché pur trattando sostanzialmente quegli stessi temi e della sconfitta dell’uomo, qui c’è una poesia, oltre gli sgozzamenti delle capre, che annienta, ed è la poesia di chi lotta anche quando e se è assolutamente inutile.