Poi lei si trasferisce, certo controvoglia da quell’abitazione comunque incantata, e da quell’abitudine propizia: pedinare il suo uomo, quello scelto per un’eternità. Lì c’è l’amore che prova, quand’anche non ricambiato. Ma per la volontà perentoria della mamma e del suo nuovo compagno è costretta ad andarsene. Da quel momento sarà lontana dal pianerottolo dell’esistenza, da dove gli incontri furtivi escogitati a sorpresa assediavano quell’uomo, purtroppo così scostante e indolente.
Incontri vissuti solo per sé, senza che lui ne abbia avuto in realtà mai coscienza. E ogni giorno insistentemente tanto attesi al di qua della porta di casa, proprio da dietro la serratura del proprio mondo, fessura da cui poter sbirciare, con il battito del cuore impazzito, gli eventi che cattura proprio mentre succedono lì di fronte.
Altrove, lontano da lì, lontani da quell’angolo di cielo sognato dal sogno, senza più un punto fermo nel tempo, quell’ossessione per l’incanto la costringerà ad un vuoto totale. Eppure è proprio quell’amore, ideale e onorato con così tanta intima fedeltà, che pure l’ha isolata dagli altri e dalla vita di tutti i giorni, a cercare continuamente un appiglio concreto, una frase, un ricordo terreno, mentre lei si conserva a un appuntamento insperato e fatale.
Diventata più grande. Mai sfiorata è più fragile. Come una foglia che resiste all’illusione del vento. Ad un passo dal cielo. Torna finalmente da quell’uomo, come fin da piccola ha da sempre voluto, come a lungo ha immaginato. Alla fine nuovamente l’incontra, caparbiamente, per amarlo questa volta fino nel fondo, anche oltre quel tradimento che già teme. Solo a quell’uomo totalmente e per sempre. Lui neanche la riconosce, e la prende per sé solo per poche notti di ordinaria passione. Forse così si prendono quelle donne che si offrono senza condizioni. Ma sono donne assolute! Proprio per come si lasciano abbandonare. Poi anche a lei una rosa bianca. Così la dimentica nell’emozione dove lei lo aveva atteso per anni. Aspetta un figlio, e per mantenerlo si prostituisce.
Dopo qualche tempo lo rincontra. Lui se la riprende come allora (lo scrittore!), ma solamente per qualche altra notte, per dimenticarla di nuovo, quella sconosciuta che per lui nemmeno porta un nome. Il bambino muore. Lei ormai già da un pezzo proprio dentro di sé. È a questo punto che gli scrive la lettera. La lettera della delusione, com’è quella di Oscar Wilde, quell’altra di Cyrano, e come è stata una volta anche una mia.
In quella ha messo il suo viaggio, quell’amore così libero e incondizionato di cui nessun amato veramente si accorge.
Lo spettacolo teatrale (visto al Belli) riesce a descrivere tutto questo senza pedissequamente dover raccontare la trama o prenderne parte, e senza neanche partecipare coinvolti alla triste sorte di chi ama in maniera così folle (ed ottusa: senza essere cioè mai ricambiati), come qui siamo stati costretti a fare ma per darne visione; o meglio, costruisce scena per scena tutti gli avvenimenti, ma secondo due interpretazioni sovrapponibili, quella dell’attore e quella dell’autore, a voler dimostrare, in ogni caso, che non è dell’amato che ci si innamora in una storia d’amore, ma di chi ama e anche soffre. Così è per lo spettatore, e così è per l’attore, che finge di non amare chi ama, tentando di dimostrare e di far credere (come egli crede) che non si possa amare follemente così inutilmente. E invece, proprio come succede a quella sconosciuta che egli schernisce, quello, l’attore, si innamora perfettamente e allo stesso modo, finanche semplicemente dell’attrice che la interpreta. Lui si innamora di chi interpreta l’amore, come ogni volta ognuno di noi allo stesso modo.
La regia mette in scena una sola figura, poliedrica, un monologante a più voci ed umori, che di tutte quelle emozioni, così forti e distruttive, si fa portatore e contenitore. Ma di quelle si fa assai spesso anche soddisfatto dileggiatore. Bravissimo davvero Cristian Giammarini in questa impresa, nello spostare l’asse dell’attenzione da un personaggio all’altro di questo dramma con identica tensione e visione, e anche usando quell’ironia e quel pizzico di cinismo a confermare delusione e disperazione. Sempre comunque innamorato, sempre comunque pervaso dalla passione di chi ci porta ad essere guardoni degli amori delusi degli altri. Il teatro per esorcizzare, ma anche per innamorarsi nuovamente ogni volta.
C’è una scena surreale che ci disorienta tutti ad un certo punto, quella finale: la scena come di un’anima che ha delle ali grandissime e che deve far volteggiare, che però agita pericolosamente, e soavemente, verso tutti noi, in uno spazio psicologico chiuso ed angusto. È in quel punto che non puoi smettere di crederci: l’amore è talmente gigante che irrompe anche negli angoli più stretti, ma per questo poi è anche così goffo!
"La più grande storia d'amore mai raccontata" di Stefan Zweig con la regia di Marco Maltauro e l'interpretazione di Cristian Giammarini. Visto al Teatro Belli di Roma il 27 maggio.