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Che strano meccanismo l'ostinazione

Che strano meccanismo l'ostinazione
di Ludovica Malquori

I luoghi fanno di noi ciò che siamo.
Ci proteggono.
Ci possono anche distruggere

Wim Wenders
(16 giugno 2014) "Via Castellana Bandiera" di Emma Dante.

Ho pensato si trattasse di un film onirico, una visione o meglio una suggestione.

Si apre con una scena di pesca in mare, la telecamera riproduce fedelmente il movimento dondolante del gozzo con il quale un uomo e l’amico pescano dei polpi. Il gozzo dondola ancora ulteriormente e la telecamera svela una costa abbagliata dal sole, è la costa palermitana cosparsa di cactus e pietra rocciosa.

Scena successiva: dal brusio delle voci in lontananza sulla spiaggia della scena precedente si passa ad un silenzio beato. È il silenzio che si trova in un cimitero di una caldissima ora estiva, beato secondo me perché le cicale ed altri insetti diventano gli unici protagonisti del suono di sottofondo. Eppure nella scena il cimitero non è vuoto, una donna seria e diligente nei suoi intenti riordina la tomba di sua figlia, i suoi gesti sembrano meticolosi e studiati o forse è il fatto di non sentirle dire una sola parola che riveste di ritualità i suoi gesti. I minuti passano e lo spettatore è lasciato solo alla rappresentazione di questo rituale cimiteriale. La donna si muove stanca ma con una certa risolutezza, prende dei tozzi di pane secco e li inizia a bagnare uno ad uno sotto il getto di una fontana, aspetta che si spugnino e poi li dà in pasto a dei cani randagi che le si avvicinano. Samira, si saprà in seguito il suo nome, aspetta paziente che i randagi piagnucolanti le finiscano di leccare le mani che sanno di pane, aspetta e si potrebbe dire indugia nel ricevere coccole dalle povere bestie che non dicono parole così come lei. Sembra non esserci fretta in questa lenta sequenza di un cimitero infuocato dalla calura estiva e si conclude con il suo discreto e pietoso prostrarsi sulla tomba da lei appena pulita.


Sono iniziate con il film le visioni di sogno cariche di teatralità. Credo infatti che già la scena del protratto silenzio nel cimitero, il fatto che lo spettatore debba osservare e captare il significato dai movimenti della donna e il suo agire cadenzato diano al film un carattere teatrale che lo si riscontrerà anche nelle scene successive.



Come in un sogno dove presto e lento sono accostati, dove moti vorticosi diversi convivono insieme, si passa alla scena successiva dove due giovani ragazze viaggiano in una polverosa automobile. Il suono è in presa diretta e questo aggiunge un ulteriore senso di precarietà al moto quasi ondeggiante della macchina che Rosa guida attraverso le strade accaldate e semideserte del capoluogo palermitano. Continua a guidare ma già la sua aria di insofferenza alla guida dell’automobile fa intuire che è indispettita. Si lamenta delle strade che non hanno indicazioni precise, che si sta perdendo, che non sa come raggiungere il posto che vuole raggiungere, sembra voler trovare ostacoli dove non ce ne sono. A fianco a lei la sua compagna Clara la osserva incuriosita e paziente. Sarà il caldo ad indispettire la sua ragazza? Sarà che non è più abituata ad affrontare la cattiva gestione del traffico ora che vive da anni fuori dalla sua città natale, fuori da Palermo? Chissà, le consiglia il possibile e rimane paziente.



Rosa continua a guidare, pian piano lo spettatore capisce che è il suo stato mentale a guidarla verso un ancora indefinito senso di disagio, non è il suo corpo, le sue mani o il cambio dell’automobile, è lei che viene pian piano trascinata viaggiando fino a un punto, un punto cruciale.



Visione attigua: Samira con respiro lento si lascia entrare nella sua automobile con la quale è arrivata al cimitero, in modo meccanico e senza espressioni sul viso si ferma in un punto del quartiere vicino alla spiaggia e fa entrare i componenti della sua famiglia acquisita: una donna incinta con due bambini piccoli a seguito, un uomo corpulento e il figlio di questo. Sembrano non appartenerle né lei a loro. E qui la lingua palermitana entra in scena sfavillante, c’è un susseguirsi di parole cantate pronunciate dai vari membri dell’automobile tranne che - viene da dire ovviamente -da Samira.



Fa caldo, la tensione cresce con l’impazienza dei due piccoli bambini che vogliono scendere ed arrivare a casa. Il caldo è percepibile, palpabile. I suoni, le voci strillate sono vivissimi proprio grazie alla ripresa semplice e non artefatta della telecamera. I bimbi piangono, la donna strilla contro di loro e l’omone protesta, Samira impeccabile rimane nel suo silenzio.



In questo magma caotico all’interno dell’automobile che lenta riporta i familiari dal mare a casa i bambini trovano modo di giocare e di contare, trovare sequenze di numeri sempre più grandi per evadere e poter trovare un senso ludico alla realtà appesantita dalla tensione.



A questo punto le due visoni si uniscono e le due automobili si incontrano, da questo momento in poi ci sarà una sola visione. Rosa dopo tanto innervosirsi, sembra voler trovare una via d’uscita ad una strada senza indicazione e invece finisce con l’incastrarsi proprio nel punto dal quale vuole evadere. Sembra essere entrata in una ragnatela ed ora che sente che non può liberarsi rimane nel giogo della trappola. Ora che è dentro sente che deve restare. Ma non ne è ancora cosciente.



Guidando e non trovando la strada giusta si va ad intrappolare da sola nel posto dal quale voleva o avrebbe voluto sfuggire: il suo luogo natio, la sua via, la sua casa, è casuale incastrarsi proprio lì? Forse no, è un irrisolto che chiede di essere risolto? Per ora non lo sa, nessuno lo sa. Lo spettatore aspetta in balìa di una scena che si protrae fino al paradosso.



I due capi dell’ingorgo/matassa sono le due automobili guidate da Rosa e da Samira. Il buon senso o il senso a cui è abituato il comune avventore della sala cinematografica direbbe che basta che uno si sposti, che una della due automobili ceda il passo all’altra e l’ingorgo finisce, il traffico può tornare scorrevole e tutto può scorrere senza intoppi. Ma è proprio quello il punto: le due donne Rosa e Samira, non vogliono lo scorrere tranquillo delle cose se queste sembrano porre loro domande importanti. Probabilmente sentono che si è arrivati al nodo, al punto cruciale su cui si sono annidate le loro paure, le loro angosce e sentono quindi di non poter far finta di nulla.



Come spesso nell’umano vivere avviene questi nodi non sono da subito mediati, capiti o digeriti, le due donne sentono solo di bloccarsi, non sanno altro, sanno che non possono fare né un passo in più in avanti né uno indietro. È in atto la crisi o la rivelazione, ma non sapendone nulla le due non trovano altra risposta che quella dell’ostinazione. Rosa ostinata, è decisa a non far passare nessuno dalla sua parte perché quella è una strada a senso unico, Samira è ostinata a rimanere con la sua automobile ferma perché è lì, dice l’omone, che hanno sempre vissuto e così hanno sempre fatto. Ma questo è solo quello che ci arriva tramite la superficie ovvero le parole di Rosa e le parole dell’uomo, in realtà man mano che passano i minuti e che i minuti si accostano tra loro e che il giorno scorre nella scena, ci accorgiamo che c’è dell’altro, ci sono altri motivi per quella duplice ostinazione, ma con un po’ di frustrazione e pazienza lo spettatore deve accettare che non può sapere nulla esplicitamente del perché di quelle ostinazioni. Può solo osservare i loro atteggiamenti.



Rosa è lì impassibile, ancora seduta nella sua vecchia automobile blu. Dopo che il sole è calato, dopo che i vocii si riducono, dopo che la sua stessa compagna la invita a demordere, lei no, resiste a dispetto della fame e di tutti gli altri bisogni primari.



Samira ha i suoi occhi limpidi fissati sul parabrezza, le sue mani accarezzano lentamente il volante, la testa le dondola forse per la fame direbbe lo spettatore impaziente, non lo sappiamo, il significato della sua ostinazione è ancora più grande quanto più grande è il suo silenzio; dall’inizio del film non ha pronunciato una sola parola neanche un fremito, nel cimitero era silente, nel vocio chiassoso dei parenti in macchina era silente ed ora nel giorno che va morendo, nella solitudine della sua automobile rimane muta senza lamenti, senza dissensi.



Che strano meccanismo l’ostinazione, le due donne preferiscono restare così, liberandosi dei loro bisogni provvisoriamente per strada pur di non cedere il passo all’altra, sembrano due avversarie.



Il gioco è perfettamente rappresentato ed estraniante perché lo spettatore continua a non sapere il motivo del loro antagonismo e sente di poter sbagliare e di fare un’illazione sullo stesso antagonismo perché potrebbe esserci qualcos’altro dietro ai loro reciproci silenzi. “Che cosa? Cosa??” (la voce dello spettatore)



Il giorno è finito, gli altri abitanti delle case vicine che sembrano personaggi di una commedia ridanciana, si sono assuefatti all’insolito comportamento delle due donne e ora si mettono persino a scommettere, cercano il profitto, il ludico della situazione. Ma intanto dentro i loro abitacoli che come capsule di protezione sembrano una metafora di difesa, asserragliate nel loro silenzio proseguono inerti le due donne.



La presa diretta continua, lo spettatore si sente quasi sfinito da tanto livello paradossale, da tanto mistero, da tanta sofferenza inespressa, è forse questo l’intento della regista? Suscitare interrogativi e lasciarli inesauditi fino all’ultimo? Non si sa, tutto è possibile in teatro come in questo film onirico e teatrale.



Lo spettatore non riuscirà neanche fino alla fine a sapere cosa nascondono le pupille lucide e pietose di Samira (Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile ad Elena Cotta), non riuscirà perché lei ha deciso chissà da quanto tempo prima dell’inizio del film di non parlare; non parla, il suo nodo è troppo grande, non è snodabile e le parole non possono quindi aiutarla a vivere meglio il suo dolore forse legato alla morte della figlia. Che siano rimorsi? Che siano pianti strozzati violentemente? Non lo sappiamo. Lei non comunica a parole, forse ha già visto che non serve comunicare ai cialtroni che la accompagnano nella vita di tutti i giorni, quei familiari acquisiti che iniziano a scommettere se lei uscirà o no dall’automobile.



Da uno però si lascia avvicinare, pur se senza parole acconsente il suo avvicinamento. Suo nipote sedicenne, puro e dal cuore grande la vorrebbe estrapolare da lì, la vorrebbe tirar fuori dal suo dolore e lei si lascia annusare come dai cani nel cimitero. C’è uno scambio di sensi, un leggero sfiorarsi tra due anime buone, una ferita e l’altra che la soccorre o almeno ci prova e dopo averla annusata, con accento marcatamente palermitano, le dice: “Sai di pane”. È una scena di soave delicatezza.



Nell’altra “capsula” Rosa ha passato la notte. Clara le si avvicina quasi incredula, vede che la sua ragazza ha voluto passare tutta la notte dentro quell’improvvisata postazione, le si avvicina ulteriormente e la vede in dormi-veglia.



Una richiesta semplice e poco pretenziosa arriva nel sonoro: “Mi canti quella canzoncina?...”. Una bravissima Alba Rohrwacher le avvicina la bocca sul collo come per iniziare a sussurrargliela e a quel punto inizia a sciogliersi quel nodo grazie al balsamo benigno di quelle parole infantili tipiche delle cantilene, tutte uguali in qualsiasi lingua le si cantino. Quelle parole piccole e dolci vengono appena intonate e riecheggiano nell’udito di Rosa come per tranquillizzarla, come per riportarla allo stadio che aveva prima della tempesta. Le ridonano pace dopo la burrasca.



Ecco la medicina, eccola: forse aveva bisogno di una voce amorevole e calda che le ricordasse quella di sua madre per riportarla al punto dal quale si era allontanata, doveva fare pace con quel legame ombelicale con il quale ogni individuo prima o poi si scontra. “Ci venivo sempre in questa via ma era diversa”: il rospo è stato finalmente sputato, lo spettatore capisce il perché di tanto logorio, di tanta angoscia, è il ritorno al passato che l’aveva bloccata, che l’aveva ostinata perché lo sentiva irrisolto dentro di sé. Era forse quell’eco del giudizio materno che aveva rimosso e che le dava timore nel riaccostarsi alla sua città natia, era quel mostro che sentiva dentro tanto più grande quanto più irrisolto rimane, quel groviglio di cose non sapute dire che la intrappolava muta e immobile nella sua automobile, era quell’amore forse non propriamente espresso e tante volte martoriato da madre a figlia e viceversa.



È l’alba del giorno dopo, l’epilogo, l’atto finale che come in teatro rivela anche se in parte.



Samira è pronta per il volo finale verso la morte, forse sfinita dal rimpianto della perdita della figlia decide di uccidersi per ritrovarla dopo la morte e forse il viso ostinato e caparbio di Rosa gliel’aveva portata dinanzi alla vista. Forse è quello che le sue nitide pupille vedevano dall’altra parte del parabrezza quando fissava l’automobile di Rosa, forse è la figlia defunta che Samira vedeva in Rosa, ma queste sono solo povere speculazioni di una spettatrice qualunque che sta scrivendo adesso. Non ci è dato saperlo.



Il suo giovane nipote proverà a salvarla, proverà gridando a più non posso il suo nome, griderà perché sa che è buona, perché sa che i buoni non possono  morire così. Ma il suo silenzio la risucchia fino alla sua fine estrema. Verrà vista fare un volo in un dirupo dopo che aveva tolto il freno a mano, gli sforzi energumeni dei tanti uomini/commedianti non servono per salvarla. Forse ha capito che l’avrebbero voluta salvare solo per non perdere la scommessa e di fronte a tanta meschinità pensa che è meglio volar via, in un mondo di silenzio assoluto e non solo trovato con il mutismo.



Tutti i personaggi corrono dietro all’automobile caduta in basso come in un corteo funebre. Sfilano senza camminare lentamente, ma correndo. Corrono tutti, donne anziani, bambini, l’umanità è chiamata al mistero dell’ignoto, i giullari sono chiamati a meditare. Alcuni volatili e una capra salutano l’assorto spettatore.



Finisce il sogno, si riaccendono le luci nella sala cinematografica.



Quante impressioni che sfuggono e ritornano proprio come i sogni sfuggevoli e vividi. Avevo preso tempo nel cercare di descrivere questo film-sogno perché non riuscivo a contenere nella mente tutte le suggestioni che scaturivano dalla visione delle scene e non ci sono riuscita perché racchiudere le immagini nelle parole a volte è un tentativo goffo.



Lontana dal momento e dallo spazio della visone di questo film mi restano dei sapori però, dei vissuti. Forse perché mi è capitato di vivere in quella città quando ero più piccola. Il film mi ha restituito certe sensazioni nette e precise di bellezza pura e cruda. Il sole accecante di quella costa brulla, quel mare limpido, quelle seppie mangiate voracemente, immagini, immagini che mi hanno restituito un piacere del passato.



Vorrei ringraziare la regista  per aver messo in scena persone comuni del posto e alcuni attori improvvisati come il nipote di Samira. Mi ha colpito vedere donne vestite come uscite letteralmente dal letto, discinte e senza reggiseno che corrono nella scena finale dietro la macchina funebre, persone semplici che parlano la meravigliosa lingua palermitana. La ringrazio per aver messo in scena la lingua palermitana poche volte rappresentata in Italia e sentita da alcuni palermitani come difetto più che come ricchezza.



Un film per chi ama le luci accecanti, i suoni forti e l’introspezione.


16 giugno 2014
Articolo di
nostoi
Rubrica:
CINEMA


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