La scena iniziale è già d’impatto, forse esteticamente la più suggestiva. Mentre una voce torbida e sussurrata minaccia ogni accadimento, passano Porzia di bianco e Calpurnia di nero sui lati di un poltrona sfasciata, cimelio vintage della scena, e per ogni epoca comunque adatta. Intanto si agitano in un balletto di demoni, piegati sulle ginocchia, a insistere sulle punte, i personaggi ambigui di questa vicenda, attuale e assai delittuosa.
Cassio è di nero, di lato, a rimpiangere Pompeo, come un uccellaccio carnivoro sui bordi del trono, cupo e solo a marcire di invidia. Bruto è elegante (in giacca e cravatta) ed è al centro, amato dal suo re. Ed è perciò lui il traditore, così lirico e intellettuale. Sarà mosso da Cassio per quei suoi ideali democratici, determinato a essere ostile a quella pure magnifica, popolare dittatura. E sarà al costo dell’amicizia, con ingratitudine, rinunciando ai privilegi a lui destinati. Casca, che è uno degli assassini, ha invece una giacca di pelle ed è il più esuberante, scaltro e infame. Un po’ on the road. È lui che sferra il primo colpo, anche se non sarà quello decisivo. Quello decisivo è di Bruto. Attaccano Cesare da dietro colpendolo sul collo. Assassinato dalle coltellate di ventitre uomini che Cesare si era scelto come collaboratori ed amici (il 15 marzo, le Idi di marzo, dedicato al dio della guerra).
Più defilato e apparentemente sincero, vestito in modo alternativo, come un ragazzetto, la nuova borghesia (diremmo radical chic, se non fosse che il termine, anche da chi scrive, è stato già fin troppo e lungamente abusato), c’è Marco Antonio, che, se pure intimamente rifiuta quelle stesse tendenze al potere, tuttavia rimane, furbescamente, l’erudito e fidato oratore del re. Agitatore interessato e astuto delle masse. Ora come allora, sempre manovrabili.
È questa la congiura. È questo lo scopo della tragedia shakespeariana. Svelare tutte quelle motivazioni soggettive che apparentemente giustificano l’assalto al potere (ugualmente per le dinamiche politiche opportunistiche del nostro tempo).
Da una parte c’è il re, il punto finale di ogni lotta (che in questo adattamento è volutamente assente, mentre al suo posto c’è quella sedia logora di cui si intuisce vagamente la forma e sulla quale nessuno riesce praticamente a sedersi, rotta com’è!) e dall’altra i senatori e “difensori” della Repubblica, che subdolamente contrari a ogni forma di potere personale, proprio a quello in definitiva aspirano. Polarizzazioni. Maggioranze e minoranze che alternativamente si scambiano le forze. Inizialmente mettendosi tutti contro l’uno. Solo in questo modo giustificheranno ogni condotta di fronte al popolo. Ma una volta senza quell’uno, presto smaschereranno quelle loro stesse ambizioni individualistiche di imperio. Eliminato Cesare, saranno presto tutti contro tutti, chi apertamente, chi sotterraneamente, e tutti con quello stesso intento sudicio di volere semplicemente comandare le masse. E tutti comunque destinati alla stessa fine, anche acclamati e celebrati. Con la battaglia di Filippi i cesaricidi perirono uno dopo l'altro, Bruto e Cassio suicidi, in una scia di vendette e di sangue dagli stessi preordinata e voluta.
Ci sono poi due altre scene, scene di donne, che meritano approfondimento e attenzione. L’impazzimento di Calpurnia (molto brava nel ruolo Ersilia Lombardo), vestita di nero (che non restò mai incinta, mentre per questo era stata scelta come sposa da Cesare), che rotola in continuazione sulla scena, senza sosta, finendo metaforicamente più volte nelle mani spietate dei cospiratori. E che, dolce e remissiva, la mogliettina perfetta, seppure pianse e strillò, e si batté come una forsennata muovendo quei piccoli passi agitati e isterici, come le mani, verso tutti quei nemici preoccupanti e intravisti, rimase inascoltata, e perciò non riuscì a convincere il marito (pure infedele) di stare attento, nonostante quella brutta sensazione l'avesse avuta confidandosi con un indovino. Quindi si passa la mano sugli occhi e nella scena scompare (naturalmente dietro alle porte), ma dopo aver sbattuto senza pareti a quelle stesse porte nel vuoto.
L’altra scena è quella pensata per Porzia, l’ultima dei Catoni, una delle famiglie più conservatrici dell’Urbe, vestita di bianco. È una figura femminile più fiera, dura e ombrosa, ma che allo stesso modo si sentirà personaggio inutile. Non impazzisce, né sparisce, tuttavia rinuncia alla vita, anche se con una certa intrigante superbia: inghiottendo un carbone ardente. Una morte atroce e affrontata con decisione. Delle luci al neon, ed è orrifico, vengono inserite al posto degli occhi, mentre lei si lascia distesa su una di quelle porte, come abbandonata tristemente in un obitorio senza gente. Proprio Bruto, il suo amore, non l’ha considera all’altezza, non svelandole il segreto di quel tradimento. Due donne diverse, eppure destinate alla stessa fine sinistra. Ignorate.
Sullo sfondo una Roma decadente, come sempre forse è stata, minacciata e martoriata dagli interessi personali, dalla corruzione, e dalle lotte intestine fra i potenti, che come cani e avvoltoi si spartiscono quella rancida preda.
La regia è davvero molto interessante, ma gli attori non sono tutti ugualmente bravi, né allo stesso modo eloquenti, perciò lo sforzo e il lavoro di alcuni viene mortificato da una certa inadeguatezza degli altri. Le scene sono molto ben costruite: il movimento delle porte con le mani sui lati sono di più che una suggestione. Molto curate anche le musiche e le luci. Nel complesso molto particolare, peccato appunto per le interpretazioni non all’altezza.
Con Andrea Cupaiuolo (Bruto), Roberto Manzi (Cassio), Ersilia Lombardo (Calpurnia), Lucas Waldem Zanforlini (Casca e Ottaviano), Livia Castiglioni (Porzia), Gabriele Portoghese (Marco Antonio).
Visto al Teatro Vascello di Roma il 31 gennaio.