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Anni felici. Un giorno qualunque li ricorderai.

Anni felici. Un giorno qualunque li ricorderai.
di Chiara Merlo

Che il segreto dell'arte sia qui? Ricordare come l'opera si è vista in uno stato di sogno, ridirla come si è vista, cercare soprattutto di ricordare. Ché forse tutto l'inventare è ricordare

Elsa Morante
(11 ottobre 2013) Nel mentre cerchiamo di cambiare la nostra piccola visione delle cose, con tutto il dolore che ciò comporta, Guido e Serena si ritrovano nell’estate del 1974 con i due figli Dario e Paolo, di dieci e cinque anni.

I due piccoli, svegli e attenti, assistono giocosamente (raramente con profonda tristezza, ma senza quasi mai percepirla) ai loro tradimenti, ai loro litigi. Osservatori invisibili a cui vengono imposti i metodi dell’apprendimento di una famiglia che, mano, mano, si de-costituisce, ciò a prescindere da occasioni eclatanti o situazioni continue di dissidio latente. Cambia semplicemente, per la sua impostazione oramai troppo vecchia.

Nel nuovo film di Daniele Lucchetti, i due protagonisti, Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti, ci raccontano di una famiglia tutta italiana anni settanta, di anni felici, nonostante tutto, con gli occhi stranamente romantici, melanconici di oggi.

Guido è un artista non ancora sperimentato, perciò vaga nel concettuale senza forma, nell’illusione che l’avanguardia sia corpi nudi, provocazione, citazionismo. Serena proprio non sa, accanto a lui, che cosa sia l’arte (e perciò che cosa sia l’amore). Due girandole senza vento, con quella forte attrazione che li lega. Ma soltanto per mancanza. Lei lo insegue dappertutto, gelosa, nel timore (consapevolezza) che lui la tradisca con le modelle che frequentano il suo studio per le sue performance. Lui se ne va, si nasconde, per non essere ostacolato.


A Guido manca la passione, che non trova perché non ha stima di sé. A Serena manca un destino tutto suo, un desiderio. Crede che la sua vita sia soltanto riuscire a trattenere quel marito. Sono due persone che ancora non si conoscono. Nella realtà, e neppure nei sogni. Non si sono emancipati dalla cultura dominante, pure sentendosi frustrati e oppressi, e hanno inseguito quella minoritaria, intellettuale, ma solo per un vezzo, o per conflitto. Due persone che non comunicano, né fra di loro, né con i figli, pur ipotizzando rapporti paritari (dai figli si lasciano chiamare per nome, com’era d’uso per le teorie psicologiche del tempo), cercando di non frenare espressione e linguaggio, di non inibire personalità e identità. Ma i due bambini sono non di rado ignorati, assistono a tutto, trascinati in un vortice di emozioni confuse e assolutistiche, spesso spacciate per moderne, invece radicate come ortiche nel vissuto stantio e rinsecchito comune di entrambi. In un contesto inevitabilmente borghese e coartante. La famiglia di lei, di commercianti e numerosa, e la famiglia di lui...sua madre, rimasta sola, anaffettiva, ipercontrollante ed educastrante.



Tutto a un certo punto apparentemente si rompe e resta come in un frammento, di aria, di arte, che perciò valica il monolitico delle sculture, classiche e neoclassiche, e va oltre anche l’evanescente del vuoto esplorato dai nuovi autori performanti contemporanei. É come un respiro singolo e ripetuto per non affogare sott’acqua, che ti serve per sopravvivere, o come un’enorme statua d’argilla interiorizzata, sul fondo, che continuamente deve essere bagnata dal pianto, se no secca e sbriciola via.



Dario si fa regalare una cinepresa, e con quella riprende gioco e stati d’animo, movimento e morte, amori delusi e amori nascenti...la storia appassionata fra due donne (sua madre e la gallerista), apparentemente convinte dal femminismo, invece totalmente coinvolte da un amore vero seppure sfuggente, comunque così intenso e romantico da restituire fiducia a tutti noi immersi nell’omofobia di quarant’anni dopo.



I personaggi sono ben costruiti e ben recitati, la misura espressiva di Kim Rossi Stuart ne fa un attore superlativo, Anche Micaela Ramazzotti è molto brava, ma è la spontaneità dei bambini che vince su tutto (Samuel Garofalo e Niccolò Calvagna).



La regia è delicata, mai irriverente, poetica e leggera, fa di questo film autobiografico una commovente esperienza visiva e una commedia davvero interessante e molto garbata.



Probabilmente un’ultima esperienza girata in pellicola (“Ho voluto usare il 35 mm, il 16 e il super 8, girando con la stessa macchina da presa super 8 che i miei mi regalarono per una promozione – dice Lucchetti - mi sono reso conto di quanto fascino ancora abbia usare un negativo e un positivo, e di quanta sensibilità, profondità di colore e fascino andranno inevitabilmente perduti quando non ci sarà più scelta e si potrà girare solo in digitale, che con tutti i suoi vantaggi e svantaggi è semplicemente altro").


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