Javier Bardem, con la sua dedizione magistrale al ruolo interpretato, riesce a far entrare lo spettatore nel dramma che vive il suo personaggio, un uomo che fa di tutto per mantenere a galla la sua condizione esistenziale e quella dei suoi figli pur non avendo venti favorevoli dalla sua parte: una ex-moglie con crisi maniaco-depressive e cadute nell’alcolismo, un fratello cinico quanto mai che occasionalmente approfitta della donna e della sua fragilità, un lavoro da faccendiere dei piani emarginati che lo fa stare in bilico tra il lecito e il nascosto, tra il controllo della situazione e il rischio di finire in prigione. Normalmente ai personaggi come Uxbal viene riservato un carattere duro e una fine sicura e trionfante, invece non succede così in Biutiful. Il cancro si insinua sin dall’inizio della narrazione e porterà lo spettatore a seguirlo fino al più ultimo dei suoi gesti.
Nella sconsolata periferia di Barcellona, tra i cassonetti troppo pieni e le molte facce razziali di Santa Coloma si può comunque e forse soprattutto intravedere bellezza, come quando nella disperazione più totale, quasi perseguitato da una realtà incalzante, Uxbal alza gli occhi un istante e viene abbagliato da uno stormo di uccelli migratori.
Bardem regala al pubblico la sua anima nel momento in cui nel più totale sconcerto piange sulle spalle di una sua amica veggente, sono lacrime calde, taglienti e vere e in quel senso di irrimediabilità che egli esprime, ancora più forte e sentita è quella consolazione e partecipazione umana dell’abbraccio con la veggente.
Il regista e gli sceneggiatori non potevano chiamarsi professionisti se non avessero affiancato questa compassione che scaturisce dalla visione del film ad atti violenti e brutali, alla visione di un tutto, di un’umanità aggregata da atti disperati, di un’umanità annegata che logora se stessa con la sopraffazione di uno sull’altro, del cinese imprenditore sui suoi connazionali più svantaggiati, del trafficante per strada; quell’umanità che non può rimanere impercettibile anche quando si tratta di vedere solo un istante un barbone che ha passato la notte per strada e che viene beccato da qualche piccione sotto la finestra del misero appartamento dove vive il protagonista.
Quella vita non è filtrata, il regista non risparmia niente allo spettatore, non un attimo, non un respiro di convenzionale assestamento, per questo non lo si può semplicemente abbinare alla nomenclatura di film, è di più, molto di più, dovrebbe chiamarsi esperienza di happening, viaggio profondo, seduta intensa o chissà.
Mi piace pensare che l’avvicinamento ai morti e al concetto di morte che si vede nel film si rifà all’origine messicana del regista: Uxbal legge i pensieri dei defunti e lo fa senza troppe trascendenze, c’è un rituale pagano in lui e quindi più umano, lo stesso Uxbal riesce a commuoversi nel vedere la salma di suo padre che non ha mai conosciuto, per lui non è un cadavere, un corpo morto bensì un corpo vivo; non si preoccupa che le braccia siano immobili, che gli occhi siano chiusi e le guance siano corrose, è comunque suo padre e si commuove per incontrarlo e il fatto che uno dei due si trovi in una dimensione di vita e uno in una dimensione di morte non pone ostacoli alla sua commozione. Forse un regista italiano avrebbe manifestato più reverenza e distacco nell’affrontare la morte, i messicani invece mi si dice che andavano nei cimiteri a portare regali e cibo ai loro defunti e che avessero raffigurazioni con simboli scheletrici, (la grande Frida Khalo ne dà esempio) ecco perché tutto viene superato diversamente.
Biutiful è un film sulla vita nonostante tutto e lo spettatore forse vorrebbe dare attenzione solo a una storia e lasciare spazio alla riflessione della tragedia in corso nella vita del protagonista ma invece no, la vita continua comunque, sotto, sopra, fuori, dentro, ovunque… In un silenzio di pochi secondi vediamo camminare lente delle formiche, all’alba anche se la città dorme c’è un fumo bianco enorme che trabocca da una ciminiera, le onde del mare vanno e vengono anche quando devono coprire dei cadaveri sulla battigia, la natura, la vita non si ferma, vanno avanti. Uxbal cammina rapido, sembra essere entrato nell’onda della vita che va avanti e che si frantuma allo stesso tempo, come se sapesse che di lì a non molto la lascerà ma si fonderà con quelle stesse onde che ascoltava da piccolo alla radio o che volerà insieme agli stormi.
Verso la fine del film non è la paura della morte che prevale ma un senso di caotica, inafferrabile, irrefrenabile bellezza.
L’umanità più vicina allo spettatore, quella dei protagonisti, è così densa che non lascia indifferenti. La ex-moglie parla convinta che la lampada che ha comprato le darà pace e ride tra l’inconsapevolezza e la coscienza che la sua situazione è e rimarrà irrisolta, Uxbal la osserva, non può contrastarla, non sa cosa avrebbe potuto fare perché entrambe trovassero felicità, ma non si oppone più a quel destino che li ha separati. Verso la fine del film, anche se lei cerca di giustificarsi per la sua vita sconquassata lui l’accarezza, capisce che non serve una spiegazione neanche più per il caos che ha affollato la sua vita, va bene così, può andar bene così; perché condannare, condannarsi, odiarsi? Va bene così, con tutto il male e il bene che c’è. Eppure lo spettatore ne ha viste di cotte e di crude per quel che la riguarda: va a prendere i figli a scuola scalza e poi appoggia gli stessi piedi sulla tavola dove marito e figli mangiano, non prepara per loro qualcosa da mangiare, fà bruciare un materasso per averci gettato una cicca accesa, consuma serate con il fratello di lui tra vino e psicofarmaci, eppure si va avanti e Uxbal le sorride poco prima di lasciare la vita.
E ancora il suo sorriso e la sua superiorità sulle avversità arrivano a un livello tale che neanche in una tra le scene, a mio avviso, più brutali del film arriva a un urlo o a una protesta: in un’angosciante discoteca della città, con musica assordante e un fratello che ignaro che di lì a poco egli morirà di cancro gli offre cocaina e prostitute, una di queste vuole fare di tutto per appiccicargli addosso un finto buonumore, Uxbal le risponde che non può perché tra non molto non ci sarà e quando alla domanda della ragazza seguirà il motivo del cancro, lei gli restituirà uno sguardo tra l’ebete e l’indifferente, un sorrisino insulso che è l’ultimo che lo spettatore vuole vedere in quel momento, in quel mondo, in quella discoteca di papponi, di gente finta e annoiata. Lo spettatore non vuole vedere Uxbal finire i suoi giorni, sprecare il suo ultimo tempo in quel posto e con quella gente eppure anche quello avviene e un sorriso da lui ci arriva nonostante la musica techno e il sorrisino finto della prostituta.
Alla fine, in tutta la disintegrazione e un destino di prepotente superbia, vincono le parole dolci e sommesse dei due bambini che da lui dipendono e che lo consolano; quel legame semplice, vitale e primordiale è il più grande testamento del film. Quel legame che li porta a cercare consiglio per scrivere i compiti di inglese e che supera l’ortografia stessa e se “beautiful” si può scrivere in un altro modo non vuol dire che il concetto di quell’amore e di tutto il film in generale siano meno biutiful.
Grazie Alejandro González Iñarritu!