Allo stesso modo, ogni volta a fatica, è il racconto della nostra propria storia fragile, quella che abbiamo imparato a memoria cercando di occultare la debolezza su cui l’altro potrebbe appoggiare la sua cattiveria. Ma la fragilità (non possiamo farci niente) è subito evidente, ed è su quella fragilità che l’altro rinforzerà i suoi terribili pregiudizi.
Capita a tutti. Ci chiedono di noi e allora non sappiamo rispondere, non vorremmo rispondere, perché le domande fanno sempre molto male, diventano, sono già, quasi sempre dei tormenti.
Ma poi rispondiamo seguendo un racconto che è già stato, più e più volte, collaudato, oppure assumendo quel tono semplicemente affermativo, conciliativo, per non deludere le supposizioni, e non fare andare, così, troppo in là, l’inquisizione.
Copi (l’autore) evidentemente conosceva bene questa difficoltà di esprimersi, cercando in qualche modo di evitare la mortificazione e l’abuso. La soluzione? La sfrontatezza, l’esuberanza, l’ironia (che difendono molto bene dal dolore che l’altro vorrebbe ulteriormente infliggerci con quel suo interrogatorio forzato). Ecco anche perché, delle due protagoniste, non riusciamo ad avere un’identità precisa, esattamente come se ci trovassimo di fronte a delle persone di cui ignoriamo il sesso (è un espediente?). Questo aspetto senza dubbio incuriosisce. È l’odore del sangue che sentono i predatori.
Ci fa diventare carnivori alludere all’ambiguità sessuale di una persona.
La terza protagonista allora, per questo motivo, è l’amante (Eva Robin’s), il nostro sospetto appurato, il punto centrale del dolore (oltre il rapporto morboso affettivo/afflittivo “parentale” delle altre due, che pure ci provano a sostenersi l’un l’altra camuffandosi). È cioè la supposta verità che si svela (secondo noi) rispetto alle domande e alle supposizioni. È l’omosessualità. O meglio, di nuovo, l’idea, il frame che abbiamo dell’omosessualità, e che ci fa credere che sia il corpo, o l’uso del corpo, a prendere il sopravvento in quel rapporto nascosto, che quasi si impone con una metamorfosi fittizia (l’operazione). E questo travestimento (o mutamento chirurgico) è come se restituisse però come una forza in più a chi soffre, una ancora possibile identità, proprio di fronte all’altro indagatore, usurpatore.
Altro aspetto spiegato molto bene è quello che gira intorno alla frase “Irina smettila di sanguinare”.
Forse dovremmo renderci conto che non possiamo dire a nessuno di smettere di soffrire...e se Irina (la figlia) si è tagliata la lingua e ha il sangue che scorre in un’emorragia che ci allarma, forse vorrebbe soltanto dirci che, anche senza parole, ognuno continua, comunque (anche quando non chiediamo, o forse faremmo meglio a non chiedere), a sanguinare, a esprimere il proprio dolore attraverso tutte quelle forme che prende il corpo (che quel dolore pure vorrebbe contenere). Così con gli occhi, i capelli, il proprio aspetto martoriato e necessariamente mutato. Più che chiedere perciò dovremmo vedere, ascoltare, sentire...
La messa in scena è molto intelligente, e commovente (di Andrea Adriatico). Al di là dell’ironia che usa per far ridere o far sorridere, ragiona per contrapposizioni assolute (nel racconto siamo in Siberia, ma visivamente ci troviamo su una spiaggia con cappelli da mare e occhiali da sole...).
La scena finale è un’interruzione. Tutto si inceppa, muore per un istante, ma, come in un remake, la storia di nuovo verrà raccontata da capo, per soffrire di nuovo (e fino di nuovo a morire). Bravissime Anna Amadori, Olga Durano ed Eva Robin’s per Teatri di Vita.