Singole parole vengono distillate nel vuoto dei pensieri e del tempo. Messe insieme fanno poesia, mentre stillano fuori da un corpo minuto e impacciato come gocce di sangue invisibile che non si cancella, né dal quaderno, né dalle pareti di una reclusione forzata, voluta, a guardare la luna sul mare.
Solitudine abnorme. Sventramento. La profonda lacerazione del non essere compresi. Perciò scrivere. Soltanto scrivere. Urgentemente scrivere. Con parole minuscole per non sembrare di esagerare, con la punteggiatura infinitesima per non fare sentire troppo alto o profondo il tuo respiro. Grafia da orafo.
Cercare il vento tra una pagina e l’altra, sentire il mare nelle lacrime, salate, lasciarle sul fondo a inumidire, poi adagiarsi sul terreno, friabile, della propria speranza vanificata. Mi leggeranno prima o poi? E mi ameranno mai per questo?! Invocare attenzione per ogni sentimento piegato accuratamente nel cassetto, attraversare con l’inchiostro i margini dei fogli, infiniti, sparpagliati dovunque: le tracce mai raccolte e mai ordinate per non arrivare al centro dei tuoi pensieri di morte.
Invocare la saggezza degli editori. Pregare, di non essere giudicato sempre con il solito metodo della distrazione, col superficiale ragionamento delle opportunità. Essere escluso ed emarginato perché troppo sofferente. Non essere pubblicato mai: troppo complesso. Lungo negli affanni.
Crederci ugualmente, al limite diventare pazzo. O sconfinata follia dell’arte! Amare il proprio dolore. Ammalarsi di umiltà, pudore, riservatezza. Avere la delicata accortezza di non coinvolgere nessuno nel proprio precipitare consapevole. Suicidarsi. Più volte. Ma...“vi prego, non seppellitemi vivo”, scriveva su un bigliettino. Accadendo...
Gli altri non vogliono vederla la tua morte, perciò ti ignorano. Ti allontanano, rimandano ogni incontro con il tuo imbarazzo, nella speranza tu muoia davvero nel frattempo...e senza lasciare un ricordo. E tu muori, veramente, all’insaputa di tutti.
Questo spettacolo difficilissimo racconta la vita, e appunto la morte, di questo poeta altissimo, così dolorosa, che anche gli spettatori avrebbero voluto fare volentieri a meno di riviverla per empatia. E invece, quasi mentre accadeva, siamo morti anche noi, per ogni singolo sollevato verso.
Come bolle d’aria le parole scoppiano, respirate con gli occhi, penetrate solitarie grazie a piccoli spilli che ci hanno macchiato di gocce ancora sanguinanti.
Un incrocio di letture con più interpreti. Innesti di immagini e foglie. Inchiostro nell’aria e luna piena. Sette strumenti dal vivo: più voci a declamare, un soprano a urlare. Strazio e preghiera, buio e penombra. Sentirci tutti colpevoli, della nostra inesistenza felice.