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"Dopo la Battaglia". Il nuovo spettacolo di Pippo Delbono al teatro Argentina di Roma
di Chiara Merlo

(25 novembre 2011) Opera bulimica. Regia abnorme. Una voce gracchiante che non si accontenta più del fuori campo ci spiega, evidentemente ogni volta più insoddisfatta, le difficili scelte stilistiche fatte, i riferimenti culturali, i giudizi politici, i valori morali, come se non fosse già abbastanza suggerirli, avanzarli come ipotesi di ragionamento, imprigionarli in una complessità estetica di tutto rilievo.

E invece dopo averli edificati, decodificarli banalmente, cioè con il proprio commento autoreferenziale, urgente, dovessero risultare davvero così incomprensibili.


Ansia da prestazione. Necessità di svilire la propria problematicità. Insicurezza coperta da continue citazioni, e peggio: auto-citazioni. E non a caso vengono chiamate a supporto le madri, quelle famose e la propria, forse a conforto del proprio dolore, e scomodati Walt Whitman, Dante Alighieri, Franz Kafka, Alejandra Pizarnik, Reiner Maria Rilke, riletti per parlare di rivolta e di amore, come Pasolini e Pina Bausch in sottofondo.



Seguendo un metodo? Allora è una metodologica sopraffazione, prevaricazione della poesia non fatta propria. L’intensità non può essere copiata né spiegata. Se non commuove, è artificiale, di plastica. Ad inseguirla una compagnia varia e di pregio, ma che viene allo stesso modo abusata e ridicolizzata.



Tutto è diventato caricaturale. Presi per i fondelli anche gli spettatori: snobbati, disprezzati, minimizzati, scherniti. Fatti ballare come degli scimpanzé. Immaginati come masse inermi. È potuto sembrare facile ridurli a paccottiglia prendendoli uno ad uno, davanti a tutti gli altri, come tipici esemplari del qualunquismo.



Eppure la scena è, nel silenzio, bellissima, da brividi, una scatola di grigi, dove il rosso, il nudo, il bianco e il nero risaltano di per sé, vivono e muoiono davanti a noi senza narrazioni posticce.



Anche le intenzioni iniziali, intraviste, erano di tutto rispetto: accostare il dolore alla follia e la follia al senso del vivere. Ma è proprio il metodo che non ci è piaciuto. Fare una cosa bella solo per il gusto di rovinarla, mettersi di proposito a ballare goffamente con una ballerina per spiegarne i movimenti...non è il tentativo di condividerne il dolore!



Il risultato: un ammasso di frammenti edulcorati, esasperati, stressati, esacerbati, legati insieme forzatamente da quella voce inopportuna, e da schegge impazzite di pensiero insieme a sofferenze altrui soltanto strappate in prestito.



Il dolore ci è sembrato così, desolatamente, un esercizio di stile. Un virtuosismo pieno del sé. Non è un balletto, non è un’opera lirica, ma non è neanche un manifesto di coraggio e innovazione, utopia e provocazione.



Belle soltanto le immagini, costruite con estrema raffinatezza e delicatezza, bravissimi soltanto gli attori, ma sottoposti a uno sfruttamento ingiusto e mortificante.



Il “dopo la battaglia” avrebbe richiesto il “silenzio” di Delbono, il suo starsene di lato e lasciare che l’opera camminasse per conto suo senza stampelle, confidando che gli attori, anche quando si è deciso debbano stare muti, ed essere soltanto movimento, sappiano da soli, proprio grazie alla regia, come decomporsi.



Sublime il violino di Alexander Balanescu, preziosa la danzatrice Marigia Maggipinto, storica componente della compagnia di Pina Bausch.


25 novembre 2011
Articolo di
nostoi
Rubrica:
Teatro


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Approfondimenti


SCHEDA SPETTACOLO-SITO TEATRO ARGENTINA DI ROMA



VIDEO DOPO LA BATTAGLIA





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