E finisce ogni volta con una profonda terribile consapevolezza. Ci si stanca di essere felici. Non può durare la felicità. Nell’infelicità. Una condizione più vera.
E lo sappiamo tutti...nella vita, come in questo testo senza fuga. In un pericoloso, atemporale, percorso all’indietro. E invece subito a voler arrivare alla fine, al resoconto, all’immediato riconoscimento della realtà. “Tradito” l’autore, il testo, questo teatro che dovrebbe soffocarti per ogni istante di vita cristallizzata, mettere la tua testa sott’acqua e lasciarla lì a non respirare, ma non ad osare la morte che più facilmente definisce ogni cosa.
Eppure questa consapevolezza pinteriana, sui tradimenti, pietrificata nelle parole, è talmente basilare per ogni altra consapevolezza da poter essere arricchita ogni volta di diversissime sfumature, anche di quelle più personali. Il tradimento non è andare a letto con qualcun altro. Non è così semplice. Non è dimenticarsi di avere una famiglia. Il tradimento è più sostanziale, è voler essere un altro, ed è volere ogni volta un altro nella tua vita. Gli stessi occhi ti pesano a lungo.
Allora si può fuggire da se stessi verso una partita di squash. Perdersi col ghiaccio in un bicchiere di liquore. Avere sostanzialmente paura e fare finta di non sanguinare.
E perciò questa messa in scena è così deludente. Come l’amore. Frettolosa, perché resti solo un concetto, un concetto sfruttato, non sfumato. E un concetto sbagliato, recepito come fosse da declinare ogni volta solo al singolare (e invece è “tradimenti”). E non ci si può aggrappare all’ironia con un riso nervoso e così trascurare quei silenzi così fortemente voluti tremendi.
Interpretare quelle parole distillate nel vuoto come fossero monotone, invariate, noiose. Neppure la noia è stata ben replicata, forse quella degli spettatori, ma non quella dei tre personaggi così ostinatamente specchiati nel nulla. E poi la trama... non è il solito triangolo: lei che tradisce lui per il suo migliore amico, ma anche lui tradisce lei e così tutto si ricompone. Questa forse è la trama di un romanzetto. Tutto invece resta in brandelli fra le sedie vuote di una stanza abbandonata, e ad ognuno, prima di andare via, viene restituito un pezzettino di carne putrefatto. Per ricordo. L’angoscia segue una storia necessariamente soggettiva.
Sono io che tradisco, e poi è per questo che vengo tradito, dall’amore, dall’amicizia, dall’altro che non ho saputo portare per sempre dentro di me. Tutto parte e finisce con me, con i miei significati e i miei significanti. E finisce con l’impotenza del sé, l’impotenza di amare.
Neanche particolarmente bravi gli attori (un po’ meglio è sembrata Nicoletta Braschi, adatta quella sua vocina).
Una regia davvero troppo leggera, sabbiosa, ma che ha saputo ben innestare alcuni set d’immagini in installazioni visive. Come se per i nostri tempi solo un canale video potesse concedere uno zoom più preciso.