Multiversi roundbox

"Niente è indipendente da te"
di Chiara Merlo


Un uomo malato di cancro, sfatto, si occupa dei suoi due bambini, ma sfrutta uomini di colore, africani, migranti, per la vendita di borse false fatte realizzare da cinesi costipati in sotterranei di quartieri assai improbabili. Molti di quelli moriranno, solo per contesto, solo ai fini di questa storia che ci racconta di questa epoca.



Gli uomini si sporcano tutti dei fatti del nostro tempo. La madre di quei due bambini è anch’ella assai ammalata, ha un disturbo bipolare (esistenziale? disfunzionale?), e comunque la costringe a passare dalla depressione più cupa a un’euforia irrefrenabile. Malattia assai diffusa in tutto l’occidente.



I due si amano e si ammalano, ma naturalmente non riescono a vivere felici e neppure insieme. Perciò lei beve e si prostituisce e lui, ogni giorno, instancabilmente, con la sofferenza atroce nel ventre da dove ha procreato (lì è il suo cancro) va a procacciarsi il denaro che per forza deve mettere da parte. Inutilmente, e pure a scapito di qualcun altro. E anche se il suo valore è l’altruismo, è un altruismo “mortificato”.



Eppure non può abbandonare alla miseria inevitabile quei suoi due figli così sfortunati. E allo stesso modo non possono i Migranti. Tutti vengono messi insieme in questo quadro, in “multiversi”, come anche gli “insetti”, ognuno è ricacciato fuori da un microcosmo che normalmente dall’altro non viene avvertito. Come da una fessura soltanto percettiva. Formiche sulla finestre e vermi sui morti. Le crisalidi sul soffitto sono i rimorsi: tutto quello che non abbiamo fatto o detto perché altri non morissero, o perché non morissero così tristi. Se anche egli muore, probabilmente quei bambini resteranno soli, sembrerebbe scelti da un destino così cinico, ma sono già grandi, accettano il dolore come viene dividendoselo per metà, dignitosamente, avendo già capito, ma è per questo che sono forti, che il dolore ha un effetto coagulante, emostatico per ogni ferita. E cecamente ti avvicina di più agli altri.



Quei due bambini così adultizzati, come tutti i bambini, anche quelli uccisi, violentati, dimenticati, oppure mai nati, appartengono a questa parte di universo malato e sono materia, questa è la poetica, la metafisica di questo quadro. Potranno andare avanti solo affidati al volo di uno stormo di uccelli impazziti. Mentre i più deboli, soli, lasciati indietro, sazieranno predatori per altri figli. Quello stormo che si agita sopra di loro, sopra di noi, è di migranti, interi popoli che si portano nelle nostre strade e che come in una tempesta di sabbia arrivata da lontano, ci restituiscono l’umanità che abbiamo ormai perso, e ci permettono anche di sperare. La regia, superba per ogni aspetto, ha poi un’intenzione bellissima, regalarci la neve bianca dopo tutto questo dolore. Lasciarci negli occhi il celeste scolorito delle tombe umide vicino al mare.



Metterci nelle braccia dei bambini, nelle loro mani tutte sporche di gioco, per salvarci dal brutto, a sentire dirompente il loro cuore nelle tenebre. Anche quando il brutto li strascica a forza nel nostro lerciume. Innestare vite, ricordi, storie personali e collettive, immagini e cieli, mare e viaggi, uccelli e suoni assordanti di una città, musiche cervellotiche e alienanti con i respiri, questo è il mestiere di Inarritu. Perché “niente è indipendente da te”. La vita è la morte.



E se Biutiful è scritto esattamente come si dice, è perché questo è il senso del paradiso, che, anche solo intravisto, è fra gli uomini, immanente per quello di buono che essi fanno, e così ci spinge a cadere di fretta nella vita più misera degli altri, cadendo semplicemente. E puoi vedere un gufo morto con la sua anima gettata fuori in una palla di pelo e le sue grandi ali schiacciate per terra indicare un ponte che forse non c’è, e poi vedere il ponte...che non ha il suo al di là in una sponda ben precisa, ma che pure ti porta su una soglia ad ammirare il tutto, forse a incontrare persone che hai già perso, o che pure non avevi ancora conosciuto.



Tutte le interpretazioni in questo film ci caricano di emozioni, anche quelle dei bambini, ma è particolarmente con la voce di Javier Bardem che ci infrangiamo a terra in pezzi di vetro per sempre. La fotografia è poesia, la musica altrettanto. La dedica è al padre ed è la cosa più commovente.


21 marzo 2011
Articolo di
nostoi
Rubrica:
CINEMA


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